calcio in cina

Il calcio in Cina

23 luglio 2009
Gli scavi archeologici hanno in effetti riportato alla luce palloni di pietra (shiqiu 石球) e di terra-cotta (taoqiu 陶球) del neolitico. Inoltre, nel corpus delle iscrizioni della dinastia Shang [1600-1046 a.C.], figura un ideogramma nel quale si vede una sfera sormontante un paio di piedi; secondo al-cuni studiosi, si tratta dell’antenato del carattere 鞠 ju “pallone di cuoio”. Quest’ultimo termine compare a sua volta in alcuni passi del grande storico antico Sima Qian [145/135-? a.C.]. In uno, ci-tando testi precedenti, si afferma:

迨至战国齐策有记击筑鼓瑟吹竽蹴鞠
dai zhi Zhan Guo Qi Ce you ji ji zhu gu se chui yu cu ju
Al tempo dei Reami Combattenti [475-221], negli “Stratagemmi del Reame di Qi” si legge il passo: “Battono sui liuti a 13 corde, percuotono gli arpeggioni, soffiano negli organi a bocca, calciano il pallone”

In un altro si dice:

临淄甚富而实其民无不吹竽鼓瑟弹琴击筑斗鸡走狗六博蹴鞠者
Linzi shen fu er shi. Qi min wu bu chui yu, gu se, tan qin, ji zhu, dou ji, zou gou, lubo, cu ju zhe
A Linzi sono ricchi e ben provvisti, nessuno degli abitanti rinuncia a soffiare negli organi a bocca, percuotere gli arpeggioni, suonare il liuto, battere sui liuti a 13 corde, far combattere i galli e correre i cani, giocare a domino e calciare il pallone

Lo cuju (“calciare il pallone”) era dunque all’epoca sia parte delle cerimonie sia attività ludica. Le sue origini sono però militari, come indica una chiosa del filologo Liu Xiang [77-6 a.C.]:

蹴鞠者传言黄帝所作或曰起战国之时蹴鞠兵势也
“cu ju” zhe, chuan yan Huangdi suo zuo. Huo yue: qi Zhan Guo zhi shi. Cu ju, bing shi ye
Si tramanda che il calcio sia stato inventato dal Sovrano Giallo. Altri dicono che sia nato al tempo dei Reami Combattenti. Il calcio era un’esercitazione militare

Da parte sua, il grande commentatore del “Libro degli Han”, Yan Shigu, ci ha lasciato una de-scrizione dello ju:

鞠以韦为之中实以物蹴蹋为欢乐也
ju yi wei wei zhi, zhong shi yi wu, cu ta wei huan le ye
Lo ju è fatto di pelle conciata, all’interno è riempito di materiale vario, si calcia per divertimento

Molte stele Han mostrano scene di cuju, che appare per lo più giocato in coppia o da giocolieri. Perchè sia descritto come un gioco di squadra, bisogna aspettare il capitolo “Il gioco del pallone” del “Libro degli Han”. Il testo tuttavia è andato perduto e sopravvive solo in parte, nelle citazioni di un autore Tang [618-960], Sima Zhen. Egli accenna alle norme per allestire un “campo di cal-cio” e uno storico moderno, Tang Hao, ha cercato di ricostruirlo.

Insomma, che il pallone pieno, prima di pietra e di terracotta, poi di cuoio, fosse calciato per addestramento e svago è fuor di dubbio. Mancano testimonianze certe che fosse giocato a squa-dre e che andasse scagliato in una porta.

Più tardi, in Giappone, nel periodo Asuka [552-716], comparve il kemari (scritto con gli stessi due caratteri cinesi usati per cuju).

In Occidente, il gioco del pallone nacque nell’antica Grecia e si diffuse poi nell’Impero Ro-mano, col nome di harpastum (“pallone”, probabilmente ripieno di stracci). Un passo del com-mediografo greco Antifane [388-311] descrive una partita di pallone sicuramente fra squadre:

prese la palla ridendo e la scagliò a uno dei suoi compagni, riuscì ad evitare uno dei suoi avversari e ne mandò a gambe all’aria un altro, rialzò in piedi uno dei suoi amici ma non cita porte dove scagliare il pallone.

Nel celebre caso del calcio fiorentino, giocato nel Medioevo con un pallone gonfiato, la palla può essere toccata anche con le mani e si è dunque in presenza di un antenato del rugby piuttosto che del calcio moderno, che nasce inequivocabilmente in Inghilterra, il 26 ottobre 1863.


letteratura cinese

La letteratura italiana e la Cina

Lo dimostrano i fatti. Dai dirigenti riformatori della fine dei Qing, Kang You-wei e Liang Qichao, fino a dirigenti del Partito Comunista Cinese come Zhang Wentian, da eminenti scrittori e poeti come Guo Moruo, Mao Dun, Lin Yutang, Ba Jin, Xu Zhimo, Su Manshu, Wang Duqing, fino a studiosi del calibro di Hu Shi o Qian Zhongshu, la crema dell’intellighentsia cinese si dedicò senza ecce-zione alcuna, con traduzioni e saggi, a diffondere in terra cinese la letteratura italiana, guadagnandosi molti meriti nei rapporti fra le letterature cinese e ita-liana. Uno dei corifei della rivoluzione letteraria cinese del Quattro Maggio [1919], Hu Shi, pubblicò fra il 1917 e il 1918 molti saggi di seguito sulla rivista “Gioventù nuova” [La jeunesse, Xin Qingnian], elevando Dante a modello per la costruzione di una nuova cultura e di una nuova lingua nazionale e portandolo alle stelle. Il prof. Qian Zhongshu, dall’ineguagliabile erudizione, nelle sue pub-blicazioni accademiche citò le opere di oltre 90 poeti e scrittori italiani, alcuni dei quali malnoti perfino agli studiosi italiani, e operò confronti con la lettera-tura classica cinese. Egli aveva una predilezione speciale per il Leopardi, che ci-tò in quasi 30 passi.

Per motivi storici, gli scambi letterari sinoitaliani tacquero per un certo perio-do. Nel 1970, la Cina e l’Italia allacciarono le relazioni diplomatiche e, a partire dalla fine degli anni Settanta, la Cina avviò una politica di riforme e apertura all’estero. Ciò creò un insieme di fattori esterni ed interni assai giovevoli agli scambi letterari sinoitaliani e la diffusione della letteratura italiana in Cina en-trò in una nuova fase, di inedita floridezza, in una nuova atmosfera e con ca-ratteristiche nuove assai soddisfacenti.

Da tempo si è finalmente conclusa la fase storica in cui la letteratura italiana veniva tradotta per il tramite di un’altra lingua, l’inglese, il francese, il russo, il giapponese. Grazie agli sforzi di un gruppo di traduttori e studiosi versati nella lingua e nella cultura italiane, i Cinesi possono leggere opere letterarie italiane tradotte direttamente dalla lingua originale. È una svolta storica di cui ralle-grarsi. Dagli anni settanta del sec. XX a oggi, centinaia e centinaia di roman-zieri, poeti e drammaturghi italiani sono stati presentati ai Cinesi, mentre di molte opere celebri sono comparse varie traduzioni, per esempio della “Comme-dia” di Dante e del “Decameron” di Boccaccio circolano oggi quattro versioni, due de “I promessi sposi” del Manzoni, e nuove versioni vedranno presto la luce. Le traduzioni dell’ “Infinito” leopardiano sono oltre cinque. Le opere poetiche di Montale e Quasimodo, a quanto so, compaiono in almeno 30 antologie di poe-sia straniera pubblicate in varie parti della Cina. L’esistenza e la concorrenza di traduzioni diverse permettono al lettore di cogliere il fascino artistico dell’ opera originale tramite le versioni migliori.

Dagli anni novanta del XX secolo, sono state pubblicate in successione una serie di grandi collane di letteratura italiana; altre lo saranno, non appena completata la compilazione. Ad esempio, nel 1990 ha visto la luce la “Collana di letteratura antifascista italiana”, che raccoglie 9 opere, fra cui “Fontamara” di Ignazio Silone, “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, “Cronache di po-veri amanti” di Vasco Pratolini, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, “Uomini e no” di Elio Vittorini, “Il deserto della Libia” di Mario Tobino. Nel 1993 la “Colla-na di letteratura italiana del XX secolo” ha raccolto10 opere di Svevo, Buzzati, Calvino, Moravia, Sciascia, Malerba, Cassola e Soldati. La “Collana di classici italiani”, la cui redazione è ormai completata, sta pubblicando 12 opere di grandi letterati, dal Rinascimento al XX secolo. Seguiranno poi le “Opere scelte di Italo Calvino” (13 opere) e le “Opere scelte di Alberto Moravia” (5 opere). La pubblicazione di serie di collane supererà lo stato di frammentarietà e disper-sione della letteratura italiana e colmerà una lacuna, permettendo al lettore cinese di conoscere sistematicamente e integralmente la letteratura italiana.

In seguito all’approfondimento degli scambi, le traduzioni di letteratura italia-na non si limitano più al solo realismo, ma si occupano equanimemente di au-tori di multiformi tendenze e delle più varie correnti, scuole e stili letterari. Al-cuni scrittori e scuole negletti e sottovalutati, come la poesia futurista, l’esteti-ca dannunziana, il teatro di Pirandello, sono stati giustamente rivalutati e le lo-ro opere vengono pubblicate le une dopo le altre. Testi pirandelliani come “Ve-stire gli ignudi”, “Sei personaggi in cerca d’autore”, “I giganti della montagna” sono stati più volte portati sulle scene e sugli schermi.

Nel 1989, viene fondata a Pechino la Società Letteraria Italiana (Yidali wen-xue xuehui). Da dodici anni, in felice e proficua collaborazione con l’Istituto Ita-liano di Cultura dell’Ambasciata d’Italia, ha tenuto 12 simposi di letteratura italiana. Ogni anno, il governo italiano garantisce la partecipazione di scrittori e professori italiani affermati, che vi prendono la parola. Da parte nostra, vi invi-tiamo celebri scrittori, poeti e studiosi cinesi, come Wang Meng, Zhang Jie, Ji-dimajia, onde rafforzare i legami e gli scambi con il mondo letterario italiano e promuovere l’ampliamento e l’approfondimento dell’ opera di traduzione, studio, insegnamento e pubblicazione della letteratura italiana in Cina.Nel

1994, lo scrittore italiano Luigi Malerba venne in Cina per prendere parte al nostro convegno. Tornato in patria, scrisse articoli sui giornali e per la rete, dove considerava l’importanza dei rapporti culturali italo-cinesi. Una sua frase ha lasciato una profonda impressione:

La cultura è l’anima del commercio

Proprio così, e potremmo ricordare che Marco Polo nacque in una famiglia di mercanti e che furono il padre e lo zio, dediti ai commerci internazionali, a por-tarlo in Cina, ma che fu “Milione”, che gli diede fama mondiale, a permettere agli Europei di scorgere a Oriente un mondo incantato e a spingerli a diriger-visi. Dunque, le culture orientale e occidentale e gli scambi commerciali tra-sbordarono l’umanità in un’epoca nuova. La letteratura è uno dei mezzi più po-tenti di cui i popoli dispongano per approfondire la reciproca conoscenza e vei-colare i proprio sentimenti. Gli scambi fra culture diverse sono la ricchezza del-la storia umana. Disse lo scrittore argentino Jorge Luis Borges:

Un libro rappresenta una nazione

La funzione, impercettibile ma duraura, esercitata dalla letteratura sul pen-siero e sull’animo umano non può essere né svalutata né sostituita. Concedete-mi qualche altro momento per spiegarmi con due esempi.
Il celebre scrittore cinese Ba Jin scrisse molte opere, negli anni ottanta del XX secolo, per lo più ricordando i giorni tragici e neri delle persecuzioni che a-veva subito. A quei tempi, afflitto e disperato, recitava mentalmente, ogni gior-no, i versi della “Commedia” dantesca. Per lui, la situazione in cui versava era assai simile a quella descritta nell’ “Inferno” e poteva trarre dai versi del grande poeta italiano il coraggio per continuare testardamente a vivere e avere fiducia nella sua resistenza alle forze del male. È evidente, la letteratura dà una grande forza spirituale!
Il primo a tradurre dall’italiano in cinese la “Commedia” di Dante fu il pro-fessor Tian Dewang. Nel 1983, ormai settantaquattrenne, iniziò a tradurre il classico, adempiendo al voto di una vita. Poco dopo, tuttavia, per una grave malattia, perse le forze e gli si indebolì considerevolente la vista. Inforcati oc-chiali da miope molto forti e servendosi anche di una lente d’ingrandimento, o-gni giorno, con energia straordinaria, spingeva avanti instancabilmente la pen-na. Dopo 18 anni, nell’agosto di quest’anno, egli finalmente completò la tradu-zione dell’ultima terzina della terza cantica, il “Paradiso”. Un mese dopo, la ma-lattia lo costringeva a letto e ci abbandonava per sempre, mentre la sua anima volava nel paradiso del poeta italiano che aveva amato per tutta la vita. È evi-dente quanto sia ardua l’opera del traduttore, ma anche che impresa nobile sia!

Stiamo per dire addio al XX secolo e per entrare nel nuovo millennio. Un pro-verbio italiano dice:
Un bel giorno si vede dal mattino

Nel 2001 vedranno la luce la “Collana di classici italiani”, le “Opere scelte di Italo Calvino”, le “Opere scelte di Alberto Moravia” e le versioni cinesi di un gruppo di opere letterarie italiane. Questo buon inizio dimostra che, illuminati dalla luce del nuovo secolo, stiamo procedendo verso un domani di straordina-ria bellezza e fulgore negli scambi letterari fra Cina e Italia.


carracci

Il paesaggio in Carracci e nella pittura cinese

In realtà, il nostro artista non produsse mai alcun manifesto teoretico della propria arte; possiamo rifarci ad una orazione funebre in memoria di Agostino, fratello di Annibale, composta nel 1603 da Lucio Faberio, in cui gli ideali dell’Accademia degli Incamminati sono esaltati, primo tra tutti quello che vuole l’atto imitativo come un “miglioramento” della realtà, attraverso l’attenzione che l’artista deve riservare a ciò che colpisce, che è opportuno e favorevole. L’artista possiede l’abilità di cogliere “le intenzioni della Natura”.

Bisogna anche dire che i giudizi critici degli antichi (penso al Bellori e all’Agucchi) non resero giustizia ad Annibale Carracci: da qui l’etichetta di “eclettismo”, che ne provocherà la momentanea disgrazia nel XIX secolo. In realtà, nei suoi anni bolognesi, Annibale seppe conciliare i richiami classicisti di un Raffaello con gli stimoli provenienti d’oltralpe, che portarono la pittura felsinea a specializzarsi in grandi scene paesistiche con personaggi in primo piano. Si deve anche ricordare l’influenza esercitata dalla pittura veneziana di Tiziano, Tintoretto e dello stesso Veronese: non c’è eclettismo in tutto ciò, ma una continua ricerca, una espressione di ricettività.

Negli anni 1595-96, Annibale avrebbe eseguito i famosi affreschi di Palazzo Farnese * ; negli anni successivi, tuttavia, egli sarebbe stato vittima secondo alcune fonti di un “humor melanconico” (che oggi probabilmente chiameremmo depressione), che ne ridusse fortemente l’attività creativa, sino alla morte, avvenuta inopinatamente all’età di soli 49 anni. Sembra di poter dire che Annibale fu sempre come una spugna rispetto all’ambiente che lo circondava, anche emotivamente; e non è un caso se, dopo l’insoddisfacente pagamento ricevuto da Odoardo Farnese per il suo splendido lavoro, forse sentendosi minacciato dall’astro di Caravaggio,, egli ridusse di molto la sua produzione, esprimendosi in uno stile molto più rigido.

Annibale Carracci fu artista eclettico; ma oggi, il mio intervento sarà centrato su un ambito peculiare dell’opera di questo grande maestro bolognese: i suoi dipinti di paesaggio, entrati a far parte di una precisa categoria della critica d’arte, quel “paesaggio ideale” (in inglese ideal landscape) in cui avrebbero più tardi brillato i capolavori di Poussin e di Claude Lorrain. Durante questo breve intervento, potrete apprezzare alcuni capolavori creati dal Carracci in questo campo, mentre chi vi parla cercherà di circoscrivere il “campo semantico” della categoria del “paesaggio ideale”, per poi azzardare alcuni confronti con la pittura di paesaggio cinese tradizionale.

Bisogna innanzitutto osservare come nella pittura europea il paesaggio sia diventato protagonista delle opere pittoriche solo con la fine del Rinascimento. Ernst Gombrich già negli anni Cinquanta ricordava come lo stesso termine “paesaggio” appaia nei testi solo verso il 1520. Soprattutto in Nord Europa, il paesaggio comincia ad essere al centro dell’attenzione degli artisti e anche dei committenti (di estrazione, va detto, ben diversa dalle tradizionali classi nobiliari e/o ecclesiastiche, che in Italia costituivano il motore del mercato delle opere d’arte). Indubbiamente, il disgregarsi dell’unità anche mentale del mondo medievale aveva portato, oltre alla ben nota affermazione del primato dell’individualità, ad un ampliamento senza precedenti del mondo, ben riflesso d’altronde nelle continue scoperte geografiche, che andavano via via ampliando i ristretti confini del mondo conosciuto. Di qui un nuovo interesse per la natura, peraltro evidente in alcune correnti intellettuali dell’epoca, come il Neo-Platonismo.

È una natura tuttavia in cui l’uomo non è mai assente, insieme all’espressione dell’umano artificio: l’architettura. Sono punti su cui tornerò nelle considerazioni comparative finali. Potremmo dire che l’ideale della classicità, che aveva attraversato tutta la pittura del XVI secolo fino a sopravvivere stancamente negli esiti, peraltro artisticamente elevati, della pittura manierista, si scontra, a cavallo fra Cinquecento e Seicento, con un bisogno inedito di rappresentare la natura come centro della composizione e non più come sfondo.

Tanto Caravaggio quanto Annibale Carracci rappresentano in modo diverso questa esigenza che, senza voler intenzionalmente contraddire il classicismo, è destinata a orientarne in modo diverso le istanze, dando vita a un secolo, il Seicento, che per molti versi vien detto anticlassico.

È pur vero che anche nell’arte barocca sopravvive un forte spirito classico, ben visibile nel costante riferimento a Raffaello e nella diffusa aspirazione a una bellezza ideale, spesso coincidente con le nuove aspirazioni della Chiesa; ma la pittura si apre a scenografie inedite, percorse da un vibrante dinamismo che in Annibale Carracci inserisce i residui della tradizione iconografica nella luce di una natura idealizzata, che diventa per l’appunto una sorta di “scenografia” del creato.

Sull’aspetto “scenografico” della pittura di paesaggio di questo periodo, dobbiamo anche ricordare che, sin dal XV secolo, in Italia la rappresentazione di paesaggi era stata impiegata come un mezzo, appunto, scenografico, teso a decorare le pareti delle ville rurali dell’aristocrazia, o degli orti posti all’interno delle ricche residenze urbane. Già Leon Battista Alberti, il primo fra l’altro a parlare nel suo trattato teorico della “prospettiva lineare” in pittura, introduceva varie tipologie paesistiche relative a differenti “tipi di scenario”. Alberti riprendeva in questo la tradizione classica, citata da Vitruvio, dei dipinti decoranti gli ambulacri delle dimore-giardino della nobiltà romana, “rappresentanti immagini tratte da determinate caratteristiche di certi siti” (“ab certis locorum proprietatibus exprimentes”); veri e propri “tipi” paesistici, “paesaggi che si possono definire astratti, tanto sono ‘tipici’”, per citare ciò che ne disse il grande storico Pierre Grimal.

Successivamente, l’attenzione al paesaggio si concretizzerà in alcuni trattati generali sulla pittura: ricordiamo le opere di Sebastiano Serlio (1545) e di Cristoforo Sorte (1580), in cui, fra l’altro, l’aspetto “scenografico” dei tipi paesistici risalta anche dalla scelta dei “tre piani” da adottare-primo piano, piano intermedio e sfondo- per rendere la profondità della composizione pittorica: una scelta che suggerisce fortemente una struttura simile a quella di una rappresentazione teatrale, e che verrà ripresa nei suoi paesaggi da Annibale Carracci, con una definizione e una chiarezza del tutto nuove, che vanno al di là del tema del “lontano”, espresso da Raffaello e soprattutto da Leonardo.

Due dipinti di Annibale possono fungere da esempio di questa resa scenografica del paesaggio “tipico”: si tratta di due opere dedicate alle due attività della caccia * e della pesca *, oggi conservate al Louvre. Le loro stesse dimensioni (253×136 cm) attestano che esse erano destinate alla decorazione di una stanza, forse dello spazio della parete posto sopra una porta. Possiamo qui agevolmente riconoscere la resa dei tre piani di profondità, con le figure umane in primo piano. Ma naturalmente, Annibale non può più accontentarsi della resa “matematica” della profondità, peraltro già integrata nelle mirabili note di Leonardo sulla “prospettiva atmosferica”, cioè sull’effetto degli elementi atmosferici e meteorologici sulla visione del “lontano”: egli si serve del colore, o per meglio dire della maestria nel dosare differentemente l’intensità del colore, per rendere l’atmosfera e gli stessi contorni degli elementi paesistici, nonché quei giochi di luce che poi esploderanno pienamente nelle sue opere posteriori.

L’aspetto scenografico di una composizione paesistica “tipica”, con personaggi ed architettura, è infine pienamente affermato in questa deliziosa incisione su rame , il “Concerto sull’acqua”*, in cui possiamo quasi immaginarci gli elementi architettonici del piano intermedio come una quinta teatrale, sulla cui parte superiore è infine dipinto lo sfondo paesistico.

Un altro felice esempio della produzione pre-romana carracciana è questa “scena fluviale” *, conservata alla Washington National Gallery of Art, ed eseguita verso il 1590. Qui emerge un altro elemento fondamentale nei paesaggi ideali di Annibale: l’acqua. (si veda anche questo schizzo preparatorio, un paesaggio fluviale con barche *. Che siano lingue di terra, gente in barca, piante acquatiche, l’acqua è sovente paredra ideale di questi elementi, accompagnata da una percezione dell’umidità atmosferica, resa da un sapiente uso dei toni, che risente indubbiamente dell’influenza della tradizione veneziana di un Tiziano o di un Tintoretto.

Così il paesaggio, che pure è parte integrante di tutta la storia della pittura, diviene finalmente, con Annibale, un genere, acquistando una sua mirabile autonomia. Se dunque la pittura barocca sorge da un lato come deviazione dall’ideale classico in contrapposizione alla verità di natura, dall’altro in essa questo ideale sopravvive come aspirazione virgiliana a un tempo e un luogo felici, dove è possibile immergersi: il riferimento a Virgilio è quanto mai opportuno, se pensiamo alla potenza dell’influsso del tema dell’Arcadia, ideale mondo rurale cantato da Virgilio nelle Ecloghe (ma non solo da lui: si pensi a Teocrito), sulla pittura di paesaggio di Annibale, e in seguito di Poussin.

Grande è l’abilità del Carracci, al suo arrivo a Roma, nell’adattare le sue esperienze con i criteri romani: ciò porterà ad una evoluzione dei suoi “paesaggi ideali”. Basti osservare uno dei suoi capolavori, la lunetta della “Fuga in Egitto” (1603)*, dove i personaggi sacri paiono fondersi nello scenario naturale, in una pittura “al limite fra cristianità e paganesimo”. Siamo fra il 1603 e il 1604 e già ha inizio “la vicenda del paesaggio moderno in Italia come scoperta della poesia della campagna romana” e le lunette della Fuga in Egitto e della Deposizione di Cristo per la cappella di palazzo Aldobrandini al Corso, si pongono a fondamento “di una ritrovata verità morale fra l’uomo e la natura”. C’è qui piena armonia ed equilibrio fra i lati della composizione e gli strati della profondità pittorica, organizzati attorno ad un asse centrale, in cui ritroviamo la Sacra Famiglia in primo piano e un gruppo di edifici che torreggiano sullo sfondo intermedio. Tutto in quest’opera parla di un sottile, ricercato equilibrio emozionale fra il dramma umano e la varietà, quasi enigmatica, della natura.

Ma si osservi anche un’altra opera di tema evangelico, la Maddalena pentita * del 1598, e un San Giovanni Battista *, e soprattutto unPaesaggio fluviale *, che siamo costretti a definire “romano”, in quanto romano è indubbiamente il vocabolario architettonico degli edifici che torreggiano in piano intermedio. Il tema dell’architettura, spesso massiccia, posta a livello mediano nella successione dei livelli di profondità, è reinterpretato da Annibale anche sull’influsso della pittura olandese, ben nota negli ambienti bolognesi da cui egli proveniva.

Inoltre, i temi eroici o pii di molte opere del periodo romano non devono farci dimenticare che il linguaggio di fondo è sempre quello, pagano, della natura. Basti osservare l’atteggiamento della Maddalena carracciana, simile certo più nella sua posa ad un filosofo meditabondo che al personaggio evangelico: un femminino qui certo “controllato”, razionale, ma perfettamente a suo agio e “inquadrato” nel mondo perennemente fertile e lussureggiante della Natura, che qui sembra quasi fare da grembo. Che siderale distanza dalla tradizione canonica, che vuole la Maddalena pentita rifugiarsi nel deserto !

Ma riprendiamo il filo conduttore del nostro discorso: il concetto di “paesaggio ideale”. Da dove esso trae origine ? E quale ne è il senso ?

In realtà, il termine “paesaggio ideale” è sempre stato associato alle opere di Annibale Carracci, e poi di Poussin e di Claude Lorrain, ma quanto ai contenuti di tale etichetta, gli studiosi hanno espresso opinioni non sempre concordi. Essa fu coniata forse da Joseph Gramm in un suo studio del 1912, il quale però considerava lo “ideale Landschaft” come un elemento universale della storia dell’arte; fu Kenneth Clark nel 1949 a collegare il termine con l’abilità del Carracci nel costruire paesaggi di una musicale, cristallina chiarezza. Inutile descrivere le posizioni degli altri studiosi che si sono interessati al problema: potremmo riassumere la questione, affermando che nel “paesaggio ideale”, per citare Margaretha Rossholm Lagerlof, abbiamo questi elementi di un vocabolario artistico:

Soggetti antichi (biblici e mitologici), ed una ambientazione nel mondo antico; uno spazio pittorico razionale e strutturato, che produce regolarità, o armonia ed equilibrio; la natura come co-creatore delle azioni umane e soggetta alla moralità umana, la natura interpretata in base ad una volontà misteriosa o magica, o percepita come un umore-contemplativo e pregno di qualità e ritmo musicali […]. Una caratteristica sia fondamentale che comune […] è un tipo di spazio pittorico in cui livelli successivi creano una impressione di profondità; primo piano, piano intermedio e sfondo sono visti come una serie di strati paralleli al piano pittorico, ed uniti da dolci linee diagonali a zigzag.

Il paesaggio ideale, spesso incline a un gusto letterario, è dunque prevalente nel XVII secolo, la cui civiltà pittorica, da considerarsi ormai in dimensione europea, opera scelte moderne, decisamente orientate a criteri di bellezza e verità, che se trovano la loro radice nell’estetica rinascimentale, trasferendosi in seno alla natura ne subiscono le insidie e i contrasti, destinati a riformulare il linguaggio pittorico in modo per l’appunto moderno, adatto a recepire ogni tipo di contraddizione e a nutrirsi di quello spirito critico, che resta la grande innovazione del XVII secolo anche per i secoli a venire. Da allora l’ideale classico, riaffiorando come conquista interiore e discernimento critico, appartiene all’estetica e quindi all’idea del bello, ma non necessariamente alla metafisica, giacché nel paesaggio del XVII secolo si concilia con la natura, dischiudendo la strada a una pittura che sa interpretare la realtà.

(c) 2009, Prof. Maurizio Paolillo, Ordinario dell’Universita’ di Lecce.