promessi sposi copertina

Lettura psicanalitica dei Promessi Sposi

(…) la letteratura italiana dall’800 fino ai giorni nostri, e’ anche corrispondente a una sorta di costruzione di sentimenti. Le parole sono scelte in base a determinati obiettivi, le frasi sono scelte per corroborare, con la scelta dei vocaboli e con l’intreccio, anche le emozioni, i sentimenti sia delle persone che vengono descritte sia del lettore. Quindi questa mia lezione, questa mia chiaccherata si basera’ su un’ipotesi che non e’ stata esplorata da nessuno. Psicanalizzare il Manzoni attraverso quello che scrive e cercare di capire come lui consciamente o inconsciamente avesse scelto quei vocaboli, perche’ aveva qualcosa in mente che non tutti vedono all’inizio, o che non tutti percepiscono all’inizio, ma che se ci si fa caso si dice “ma guarda ma forse e’ vero, che strana coincidenza”. E andiamo ad esaminare solo una pagina, la prima pagina del romanzo che per una forma di straordinaria anticipazione riesce a condensare in se’, come la Divina Commedia, tutto il romanzo. Infatti possiamo addirittura fare un paragone e un parallelo tra Dante e Manzoni, perche’ questi due geni della letteratura italiana o gia’ avevano nella loro mente tutto il romanzo e tutta la loro opera a parite dalla prime frasi, oppure hanno voluto scrivere le prime frasi in funzione di un romanzo che era gia’ finito. E adesso vi spiego perche’, facciamo la prima frase.
“Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien quasi a un tratto a restringersi e a prender corso e figure di fiume tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte. E il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancora piu’ sensibile all’occhio questa trasformazione. E segni il punto in cui il lago cessa e l’Adda ricomincia, per ripiglia’ poi come di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo lasciano l’acqua distendersi e rallentarvi in nuovi golfi e in nuovi seni.”

Vediamo la musica, l’accelerazione e la decelerazione di questo primo paragrafo.”Quel

ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno”, allora la topografia del lago di Como sono stati scritti fiumi di inchiostro. Il lago di Como e’ fatto un pochino come una specie di animale con due braccia e due gambe. E ci sono, appunto, queste escrescenze, e c’e’ il ramo del lago di Como che e’ appunto una sorta di prolungamento del lago di Como che volge a mezzogiorno, quindi che volge a sud.

“Tra due catene non interrotte di monti”, quindi gia’ abbiamo, se noi ci riflettiamo in questa prima frase abbiamo l’acqua, la pietra. Due elementi che lasciano presagire che il romanzo sara’ un romanzo duro, fondato quindi su due elementi fondamentali. Gia’ dall’inizio l’acqua e le montagne. Perche’ l’acqua? Voi vedrete che le pagine piu’ straordinarie dei Promessi Sposi si basano sull’acqua. Una e’ “L’addio ai monti”, quando Renzo e Lucia prendono il battello per allontanarsi dalla loro casa natale. E questo e’ gia’ come un’anticipazione che l’acqua giochera’ un ruolo fondamentale in tutto il romanzo. Allora, l’addio, la fuga si fa per acqua.

La fuga da qualcosa per la salvezza c’e’ anche in un altro momento chiave del romanzo, che e’ Renzo che scappa da Milano. E come fa a fuggire da Milano? Qual e’ il punto in cui lui si salva finalmente per la seconda volta? Quando lui scappa, scappa non riesce a trovare l’Adda e poi alla fine, quasi per un miracolo, lui di notte sente il chioccolio dell’acqua e riesce a scappare tramite il barcaiolo che era li’ provvidenzialmente. Quindi seconda salvezza. Terza salvezza: quasi alla fine del romanzo, quando si e’ raggiunto un culmine di drammaticita’, perche’ la peste ha mietuto tre quarti della popolazione di Milano, a un certo punto che succede? Si gonfia il cielo e cade l’acqua, e l’acqua costituisce a la salvezza quel punto per tutta la citta’. Quindi vedete come e’ importante gia’ dal primo momento, con la parola lago uno presagisce che l’acqua giochera’ un ruolo determinante nel romanzo, sia come pathos sia come le pagine piu’ belle che non a caso sono “L’addio ai monti”, il pathos di Renzo che riesce a trovare l’Adda per fuggire. Quella frase meravigliosa che dice quando Renzo trova l’Adda e riesce a rendersi conto che era il fiume, Manzoni dice: “Fu come trovare un amico, un fratello, un salvatore. Vedete che e’ crescendo in queste tre parole, quindi l’acqua giocava un ruolo fondamentale.

Le montagne, la pietra, noi le montagne diciamo sono le pietre della terra, sono le ossa della terra. Quindi l’acqua la salvezza, e il contrario questo contrasto tra l’acqua e la pietra, tra la liquidita’ e la solidita’, ci lascia capire che il romanzo avra’ un continuo dialogo tra due momenti, tra due situazioni: una situazione di fuga e una situazione di problema. Quindi tutto quello che e’ la problematica ha a che fare con la pietra, con le montagne. Non a caso quando vengono i barbari, i Lanzichenecchi, tutti si rifugiano sul castello dell’Innominato sulle montagne. Perche’ sceglie “tra due catene non interrotte”, c’e’ qualche cosa, ci sone dei legami, i personaggi evidentemente sono legati, sono incatentati da qualche cosa, che può essere questo qualche cosa? Possono essere delle remore, possono essere dei legami religiosi. Per esempio Lucia si sente incatenata a un voto che lei fa a causa di un momento di sconforto, vedete già queste catene noi ci lasciano presagire che c’e’ qualche cosa nel romanzo che costringera’ i personaggi entro delle catene, dentro delle maglie. “Catene non interrotte di monti”, vedete che le catene non possono essere spezzate facilmente. “Il ramo del lago di Como e’ tutto a seni e a golfi” questo e’ assolutamente un capolavoro di psicanalisi. Se uno va a pensare, nel lessico italiano cosa sono i seni? I seni in prima battuta, cioe’ nella prima accezione della parola, sono delle parti anatomiche delle donne quindi cosa fa immediatamente capire che un personaggio di una creatura, una donna e’ il seno. Perche’ il Manzoni non avrebbe detto ad insenature e a golfi? No ha utilizzato la parola seni che va bene, nella seconda accezione seni vuol dire anche insenatura. Ma la mia teoria e’ che, consciamente o incosciamente, dalla seconda riga il romanzo ha a che fare con una donna.

C’e’ qualche cosa che istituisce un problema, si incentra intorno a una figura femminile, e non e’ solo una figura femminile intesa come figura astratta o madre. No il seno e’ qualcosa di erotico, qualcosa di sensuale, quindi ci dev’essere nel romanzo qualcosa che ha a che fare con delle avventure amorose, con delle problematiche legate alla sessualita’. Non a caso Lucia viene molestata da Don Rodrigo, quindi vedete gia’ dalla seconda riga una persona che sappia leggere dice “ah il romanzo deve contenere qualche cosa”, certo trattato in maniera sublime, che di per se’ potrebbe essere persino scabroso se non venisse analizzato e sviluppato nella maniera religiosa e rispettosa e provvidenziale che e’ quella dei Promessi Sposi. “Allora il ramo del lago di Como viene, a seconda dello sporgere”, vedete, i seni sporgono e rientrano “a seconda dello sporgere o rientrare di quelli”. Vedete che c’e’ qualche cosa che ha a che fare con dei movimenti, delle avanzate e delle retrocesse.

Vedete questa, adesso piano piano da una pace iniziale, che era quella della poesia “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti” c’e’ come una prima pagina di quite prima della tempesta, di attesa della tempesta. Poi la narrazione viene ad essere concitata, “viene a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien quasi a un tratto a restringersi e a prender corso e figure di fiume tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte.”. Vedete come cominciamo a movimentare il racconto. “E il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancora piu’ sensibile all’occhio questa trasformazione.” Ah ah dice c’e’ qualcosa che ci suggerisce che c’e’ una specie di aggrappamento che qualcuno vuole legare tra il problema e la sua soluzione.

Padre Cristoforo per esempio, Padre Cristoforo e’ un ponte per questi poveretti. “E segni il punto in cui il lago cessa e l’Adda ricomincia”, vedete che si crea una prima idea di quella che sara’ poi la confusione creata nei Promessi Sposi dalla, per esempio dalla paura, dalla fobia di Don Abbondio che crea una confusione. Vedete come non si sa piu’ se e’ lago, se e’ fiume. “Per ripigliare ancora nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo lasciano l’acqua distendersi e rallentarvi in nuovi golfi e in nuovi seni.”. Vedete che alla fine ci lascia presagire che il romanzo avra’ un inizio, un concitare di avvenimenti per cui probabilmente le persone devono scappare, come e’ la verita’. Un momento di confusione che non si sa dove sta Renzo, dove sta Lucia, Renzo deve scappar via. E poi alla fine grazie a Dio “le acque si rallenteno e si distendono in nuovo golfi e nuovi seni”, che vuol dire che alla fine quella che all’inizio era una sessualita’ problematica, alla fine probabilmente diventera’ una sessualita’ appagata col matrimonio in effetti dei due protagonisti. “La costiera formata dal deposito di tre grossi torrenti”, deposito di torrenti, devi qua c’e’ qualche cosa che si deposita, un sedimento. Tutto quello che e’ sedimento e’ qualcosa che viene ad appensantire una situazione. “Scende appoggiata dai monti contigui, l’uno e’ detto di San Martino l’altro – con voce lombarda – il Resegone dai molti suoi cucuzzoli in fila che in vero lo fanno assomigliare a una sega”. Altro capolavoro psicanalitco, c’e’ qualche cosa che tormenta, che tortura i personaggi come una sega. “Dai molti suoi cucuzzoli in fila”, vedete che c’e’ proprio una figurativita’ del Manzoni che ci fa pensare come questi denti di una sega, uno potrebbe addirittura dire per continuare il paragone e il parallelo con l’acqua, pensare ai denti aguzzi di uno squalo, di un pesce spada, di un animale mostruoso che vuole dilaniare nella sua bocca i protagonisti di questo romanzo. Il resegone, la sega: Identificazione del panorama con uno strumento di tormento, di tortura, di problematica. Pero’ al tempo stesso questo strumento, questa sega, e’ come se fosse un punto distintivo di tutto il romanzo. “Tal che non e’ chi al primo vederlo” cioe’ questa catena che sembra una sega puche’ sia di fronte, “come per esempio di sulle mura di Milano che guardano a settentrione”.

Allora qui dice ma perche’ il Manzoni fa questo richiamo? Cioe’ questo panorama di questa sega e’ immediatamente riconoscibile per esempio a chi sta sulle mura di Milano. “E che guarda a settentrione, e che lo discerne a un tal contrassegno”, cioe’ riesce a distinguere il Resegone a un tal contrassegno vuol dire a una tale identita’ con una sega, come non riesca chi guarda da Milano a distinguere quel specifico monte Resegone che gurda caso e’ proprio il monte che incombe su Lecco e sul territorio dei nostri protagonisti. Allora lui immediatamente lo riconosce quel monte di sega “in quella lunga e vasta giogaia”. Cos’e’ la giogaia? La giogaia e’ il giogo dei buoi che soffrendo danno il pane agli uomini. Allora dice in quella lunga e vasta giogaia, pensiamo un po’ in senso metaforico qual e’ la lunga e vasta giogaia? E’ l’avventura dell’uomo, cioe’ l’avventura dell’uomo sulla terra e’ come se fosse l’avventura di una coppia di buoi che, per guadagnare il pane e per arrivare alla fine della sera, devono con se’ sottoporsi al giogo delle miserie quotidiane e delle sofferenze quotidiane per avere il premio promesso. Vedete come e’ tutto meravigliosamente spiegato, concatenato.

Io non credo che il Manzoni fosse uno psicanalista, quindi io credo che nella vigna del vocabolario delle sue parole, lui abbia vendemmiato inconsciamente quei vocaboli che potevano piu’ aiutarlo a spiegare e a rendere quelle che erano poi le avventure del romanzo. Vi faccio un altro parallelo. Vi ho chiesto prima, ho fatto questa domanda retorica, perche’ Manzoni parla di chi sta sulle mura di Milano?

E di chi guarda e lo riconosce quella specifica catena di monti, il Resegone? Che bisogno c’e’ di mettere qui nel primo paragrafetto questo richiamo? Pensiamoci un po’, quale puo’ essere nel romanzo il punto in cui serve dire ah ma il Manzoni l’aveva detto nella prima parte. Allora ricordiamoci che succede quando Renzo va a Milano. Renzo scappa via, si avvia a Milano con una lettera per il Padre Bonaventura, che era il padre del convento dei Cappuccini di Milano. E cammina cammina arriva alle porte di Milano, bussa al convento e gli dicono “Padre Bonaventura non c’e’ figliolo, andate in chiesa a fare un’orazione, ritornate tra un po’ e troverete Padre Bonaventura”. Renzo che era un ragazzo, Renzo c’avra’ avuto 19 anni, dice ma che scherziamo io sto qui a Milano mi faccio un giretto, e prima di fare un giretto sulle mura di Milano da’ un’occhiata e vede il Resegone. E gli prende un magone nel corpo e dice guarda li’ sta la mia casa. Vedete come mirabilmente collegato in questi due punti chiave del romanzo.

Che succedera’? Renzo non da’ retta al Padre Bonaventura, Renzo si avventura a Milano e e’ l’inizio dei suoi grossi problemi, perche’ vede la gente che si avviava al Forno Delle Grucce e lui va e diventa quello che si chiamerebe oggi un agitatore proletario. Renzo comincia ad affascinarsi per questa problematica e partecipa alla furia della folla che vuole assediare il Forno Delle Grucce. Comincia a gridare “pane, pane agli affamati eccetera” e poi con una tipica trasformazione della psicologia della folla cambia idea. Quando vede la polizia viene per liberare il Ferrer, che era il vicario di provvigione, Renzo passa a 180 gradi come spesso succede nelle folle. Se c’e’ qulacuno che riesce a dirigere la folla, la folla beota per sua conformazione perche’ la folla non ragiona, la folla segue. Allora Renzo in quel momento si e’ creato un altro polo di attenzione che e’ quello dei polizziotti, e Renzo cambia idea: da assalitore del Forno Delle Grucce, Renzo diventa difensore del Forno Delle Grucce. E da li’ prende avvio poi il fatto che lui poi verra’ identificato come il principale artefice della sommossa al Forno Delle Grucce, verra’ condannato e dovra’ effettivamente scappare via dal territorio di Lecco per raggiungere il cugino Bortolo, come noi sappiamo. Vedete come le due cose sono collegate.

“Per un buon pezzo la costa sale”, vedete allora che c’e’ qualcosa, comincia un terreno in salita. “La costa sale con un pendio lento”, quindi c’e’ un inizio di sofferenza, un inizio lento e continuo, “poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura dei monti e il lavoro delle acque”. Vedete gia’ come vediamo che c’e’ la vita fatta da una salita poi c’e’ un momento in cui la gente puo’ tirare fiato, si rompe, c’e’ una situazione come se si rompe. C’e’ una situazione di problematica, c’e’ come una diga che si rompe quindi bisogna ricostruire la dita e poi alla fine c’e’ una pace.

“Il lembo esterno, tagliato dalla foce dei torrenti, e’ quasi tutto ghiaia e ciottoloni”, perche’ il Manzoni non dice ghiaia e ciottoli, ghiaia e pietre? No, ciottoloni. Che cosa ci fa venire in mente questa parola ciottoloni? Che ci devono essere delle cose pesanti, un ciottolo e’ un ciottolo che tu puoi dare un calcio e lo mandi via, un ciottolone gia’ non puoi dare un calcio. Ti fai male al piede, lo devi raccogliere e spostare. Allora altro enjambement come si dice in francese, altro collegamento, altra bretella come diremo oggi in linguaggio autostradale. Qual e’ la bretella del termine ciottoloni? Ci viene subito in mente l’inizio vero del romanzo che e’ un po’ piu’ in la’. Don Abbondio e’ una figura tratteggiata in maniera mirabile, questo quadro direi quasi dell’800 verista che ci fa vedere questo parroco di campagna. Ve lo leggo e’ proprio qua. “Diceva tranquillamente il proprio uffizio e talvolta, tra un salmo e l’altro chiudeva il breviario tenendovi dentro per segno l’indice della mano destra. E messa poi questa nell’altra dietro la schiena”, vedete come Don Abbondio quasi abbandona la religione per potersi incamminare nella campagna e godere della campagna. Vedete dalla sacralita’ si passa alla profanita’. “Proseguiva nel suo cammino guardando a terra”, quindi vedete guardando a terra, Don Abbondio non e’ un tipo di alta spiritualita’, e’ un tipo come diremmo noi, e utilizziamo un solecismo: e’ come la “porcacchia”, e’come Don Abbondio che resta a terra. “Guardando a terra”, non e’ capace di guardare in alto. “Guardando a terra” e sentite adesso “e buttando un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero”. Don Abbondio li butta via i ciottoli, li butta via queste trascuratezze, tutto quello che poteva ostacolare la sua vita sedentaria, calma, tranquilla, lui tutte quelle cosettine, i disturbetti li cacciava. I ciottolini li cacciava con il piede. Allora quando noi veniamo, ritorniamo a prima, “Il lembo esterno, tagliato dalla foce dei torrenti, e’ quasi tutto ghiaia e ciottoloni”, sono cioe’ cose che non possono essere tolte con il piede, quindi vedete gia’ e’ quasi come dicesse Manzoni, ahime’ Don Abbondio fino adesso c’era riuscito a scalzare i ciottoli, adesso si incontra con un ciottolone che sono infatti i Bravi.

“Il resto” adesso guardate c’e’ una parte di differenziazione, “ghiaia e ciottoloni”. Adesso il Manzoni lascia vedere che in questo paesaggio crudo pero’ c’e’ la parte di bellezza. Lui era profondamente innamorato della sua terra lombarda e ce lo dice in tre righe che lasciano presagire il paradiso. “Il resto campi e vigne sparse di terre, di ville, di casali”, vedete come gia’ dice oh c’e’ la montagna pero’ sulla pianura ci sono le ville, i casali, in qualche parte boschi. Gia’ pare di vederli, che c’e’ un paesaggio di natura molto bella. “Boschi che si prolungano su per la montagna.”. Allora non e’ vero che le montagne sono solo ghiaia e ciottoloni e pietre. Da qualche parte la natura riesce ancora a conquistare la bellezza del paesaggio. “Lecco”, la principale di quelle terre, e che da’ il nome al territorio, “giace”. Perche’ Manzoni non dice Lecco sta, Lecco si trova. Vedete come giacere e’ nel lessico italiano un sinonimo riposare pero’, siccome mi interessa la lettura psicoanalitica, prima di tutto giace sta ferma. Giacere vuol dire Lecco sta li’, non si muove, vedete come un ciottolone, come un pietrone. Quindi c’e’ qualche cosa di stantio che impedisce la dinamica e che impedira’ infatti a Renzo di potersi difendere. L’Azzeccagarbugli che sta li’, che non muove, che difende solo gli interessi della classe dominante, e’ quasi una personificazione di Lecco che giace, Lecco che sta li’. Vedete come c’e’ questo sentimento di pesantezza. Vi diro’ di piu’, giacere nel lessico italiano e’ una parafrasi di commettere un atto sessuale, giacere con la propria moglie, giacere con una donna e’ anche l’espressione dell’atto sessuale. Allora Manzoni a mio avviso non percepiva il contenuto psicanalitico di queste sue parole, noi possiamo a posteriori pensare che Manzoni aveva bene in mente come il suo romanzo, velato e ammantato di letteratura e di prosa sublime, in realta’ e’ un romanzo rivoluzionario per quei tempi. Perche’ parlava di dettagli e di argomenti che, se fossero stati trattati in maniera volgare, potrebbero essere stati veramente molto scabrosi.

“Lecco giace, poco disposto dal ponte alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso quando questo ingrossa”, vedete l’acqua, l’importanza dell’acqua. Perche’ l’acqua puo’ essere salvezza e puo’ essere periocolo e quindi Lecco si trova dentro al lago. Vuol dire Lecco viene inondata dal lago quando il lago ingrossa.

“Un gran borgo al giorno d’oggi e che si incammina a diventare citta’”. Al giorno d’oggi Lecco e’ diventata grande ma ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare. “Quel borgo, gia’ considerabile, era anche un castello”, in latino castello castellum e’ un luogo in cui c’e’ una bella divisione amministrativa dei territori, c’e’ un comandante, un capo. Infatti Fermo aveva 49 castella, castella vuol dire che Fermo era un pochino come il re di un cirdondario che aveva i suoi sudditi e suoi sindaci. Quindi castellum era un borgo amministrativamente centralizzato, “era anche un castello e aveva percio’ l’onore di alloggiare un comandante”. Qui comincia la famosa ironia del Manzoni, perche’ un onore alloggiare un comandante? Vuol dire che ci deve essere qualche scherzetto qua intorno no? “L’onore di alloggiare un comandante, il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli”.

E qui e’ molto ironico, ovviamente non era un vantaggio avere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, tanto piu’ che stabile vuol dire che questi poveracci non potevano muoversi, non erano gente del posto, erano persone spaesate, e come spaesate. Vedete come c’e’ il contrasto tra l’immobilita’ di Lecco e la mobilita’ di questi soldati spagnoli che vengono dalla Spagna e boom, vengono catapultati in una prigione da cui vorrebbero evadere. Non potendo evadere, essendo quindi li’ senza famiglia, che fanno? “Insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese”.

L’espressione di una ironia e di una eleganza incredibile che vuol dire tutto. Che vuol dire insegnavano la modestia? Vuol dire che le ragazze e le donne del paese erano gia’ modeste, perche’ la modestia ai tempi del Manzoni, e ancora di piu’ nel 1628 e’ il momento dell’azione storica del romanzo, era una caratteristica precipua delle donne di buona famiglia o comunque delle donne di decorosa condizione. Le donne immodeste erano le cortigiane, e perche’? Perche’ le cortigiane per editto della regia, o insomma per editto della potenza del governo, dovevano andare a capo scoperto. Per quello il velo e’ considerato la modestia, uno oggi ti direbbe dovrebbe essere il contrario cioe’ la persona svergognata dovrebbe coprirsi. Invece no per riconoscere le donne modeste dalle donne immodeste, che cioe’ esibivano le proprie grazie o disgrazie per poterle vendere, dovevano essere senza veli. “Quindi vi e’ piu’ le donne modeste dovevano ammantarsi di veli perche’ il soldati spagnoli glieli volevano togliere”. Insegnare la modestia vuol dire le affrontavano e le favevano diventare sfrontate. Nel lessico italiano una persona sfrontata e’ una donna immodesta, ma una donna sfrontata vuol dire anche che ha la fronte libera.

Apposta quando diciamo donna sfrontata, ragazzo sfrontato, ragazzo sfrontato e’ immodesto, inverecondo e in qualche maniera legato alla prostituzione. Sfacciato si, senza faccia, con la faccia scoperta. “Insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo le spalle a qualche marito”. Altra ironia, vuol dire che mica li accarezzavano ovviamente, bastonavano con i loro bastoni i mariti, a qualche padre, i mariti o i padri che volevano entrare, soccorrere le loro mogli o le loro figlie che venivano molestate dai soldati spagnoli. “E sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vie”, vedete questo spandersi, come i corvi. Vedete c’e’ un altro bellissimo paragone nei Promessi Sposi di una mandria di corvi che si spande nelle campangne e questi corvi sono come i soldati spagnoli che si spandono nelle vigne, cioe’ che si sparpagliano nelle vigne quando ci sono i grappoli maturi. “Per diradar l’uve”, per diradar l’uve, per spilluccare le uve, i grappoli “e alleggerire ai contadini le fatiche della vendemmia”. Altra sublime espressione di ironia, i contadini figuriamoci la fatica e’ come quella dei buoi della giogaia di cui parlavamo sopra. Le fatiche della vendemmia sono fatiche belle, sono fatiche allegre perche’ alla fine c’e’ il premio che e’ il vino. E allora i contadini non vogliono essere alleggeriti, quindi qui sta l’ironia del Manzoni dicendo che i soldati spagnoli alleggeriscono le fatiche cioe’ sottraggono ai contadini il frutto del loro lavoro.


louvre

Il potere e la grazia: i santi patroni d’Europa

A Roma una grande mostra racconta la storia dell’Occidente cristiano

28 ottobre 2009

Tra tavole medioevali e dipinti imponenti, preziosi diademi e codici miniati, i capolavori dell’arte da un lato presentano conversioni e persecuzioni, battesimi e battaglie che hanno congiunto la vicenda dei popoli europei al cristianesimo, e dall’altro dischiudono le porte regali di una ideale iconostasi, confine dove si congiungono fede e bellezza, visibile e invisibile, temporale e spirituale.

Promossa dal Governo italiano, tramite l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, e dalla Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, la mostra, curata da Don Alessio Geretti, nasce dalla collaborazione tra il Comitato di San Floriano – istituzione culturale e religiosa del Friuli Venezia Giulia, che propone annuali mostre d’arte sacra di rilievo nazionale ad Illegio, in Carnia – ed il Polo Museale della città di Roma, ed è organizzata da MondoMostre, protagonista della riuscitissima monografica su Sebastiano del Piombo e delle dieci grandi mostre della Galleria Borghese.

L’Europa è posta sotto la protezione di sei santi patroni, scelti tra i principali protagonisti della sua evangelizzazione, tra primo e secondo millennio dell’era cristiana, emblematici per l’impronta che lasciarono nella storia dei popoli latini, nordici e slavi e per la sintesi di valori culturali e religiosi trasmessi in eredità.

Ogni singolo Stato europeo, peraltro, ha i suoi santi patroni, talora acclamati dalla devozione popolare ed immortalati per le opere di carità di intramontabile valore compiute, talvolta eletti dal potere politico o celebrati da élites di intellettuali ed artisti, o ancora impugnati come vessilli e catalizzatori dell’identità nazionale nell’epoca del sorgere degli Stati nazionali o dei movimenti per l’indipendenza ottocenteschi.

Testimoni del fatto che l’Europa è molteplice, nel segno delle identità e delle autonomie che la compongono da sempre, ma anche una, quanto ai fondamenti culturali della sua civiltà, i settanta santi patroni dei diversi popoli europei hanno ispirato nei secoli le migliori espressioni delle arti, della liturgia, della mistica e della religiosità popolare: è a tutto ciò che la mostra di Palazzo Venezia vuole rendere omaggio, invitando a scoprire con eleganti accenni – opere scelte per indicare percorsi di agiografia, storia sociale e politica, evoluzione della vita religiosa – un patrimonio ricchissimo.

Questa novella Legenda Aurea, sontuosamente illustrata nella mostra romana, consentirà di cogliere in controluce sulla mappa dell’Occidente la filigrana del rapporto tra Chiesa e comunità politica: un rapporto decisivo e complesso per spiegare da dove provengano all’Europa molte delle sue conquiste e delle sue grandezze.

In ultima analisi, questa esposizione si propone di affrontare e dare un contributo per sciogliere i più delicati nodi del dibattito culturale contemporaneo – le questioni delle identità, della laicità, delle civiltà e delle religioni – non con la fatica di ragionamenti serrati ma con il fascino del bello, attraverso cui intuire le soluzioni incarnate nella vita dei più santi degli europei e dei più europei dei santi.

Originata dalla chiara ispirazione religiosa del suo curatore, la mostra può essere fruita anche con un’ottica laica, come esercizio per l’approfondimento e lo studio delle radici storiche e culturali dell’Europa e delle società di molti Paesi europei.

La rassegna a Palazzo Venezia comprende capolavori dei massimi geni dell’arte di tutti i tempi: dalle Stigmate di San Francesco del van Eyck della Galleria Sabauda di Torino, al Martirio di San Pietro di Guercino dalla Galleria Estense, dal San Giovanni Battista di Caravaggio dalla Galleria Corsini, al San Luigi IX di El Greco dal Louvre, da L’Imperatore Teodosio e Sant’Ambrogio alla Cattedrale di Milano di van Dyck dalla National Gallery di Londra al San Giorgio del Mantegna o al San Giovanni Battista di Tiziano, entrambi in prestito dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, dal San Giacomo vittorioso di Tiepolo da Budapest all’Immacolata Concezione del Murillo dal Prado di Madrid.

Una collezione di tesori assoluti, raccolti dal filo conduttore dell’intreccio fra potere, religione e arte.


brasile

Cultura e cucina italiana in Brasile

IL LIBRO E IL PIATTO: UNA MOSTRA SU “QUANDO CUCINARE ERA UN’AVVENTURA”

16 ottobre 2009

La collaborazione fra gli Uffici Scuola dei Consolati italiani di San Paolo e Belo Horizonte ha prodotto una mostra storico-letteraria-culinaria dal titolo Il LIBRO E IL PIATTO – Quando cucinare era un’avventura. La mostra prende spunto da una piccola biblioteca popolare messa insieme tra la fine dell’Ottocento e gli anni trenta del Novecento, consistente in quattordici ricettari e in trenta libretti illustrati di vario argomento, in prevalenza d’avventure, tutti in sedicesimo, il cui aspetto richiama la “literatura de cordel” distribuita tuttora nelle fiere dei piccoli centri portoghesi e brasiliani. Si tratta di romanzi di Verne, Aimard, Mayne-Reid, il Contratto sociale di Rousseau, il Discorso sulla natura degli animali del Conte di Buffon ed altri. Secondo l’editore dei ricettari, poi, la serie completa di trentadue volumetti era “la più vasta e pratica enciclopedia culinaria finora pubblicata in Italia”: Cento maniere di… cucinare il manzo, il vitello, il pesce, la selvaggina, le vivande di magro, l’insalata o le pappe per i bambini, di accomodare gli avanzi, di servire piatti regionali, nazionali ed esteri. Un repertorio ghiotto, a portata di mano tra piatti, posate, tovaglie, strumenti e macchine da cucina.

I pannelli abbinano un ricettario e un libro di letteratura, con due citazioni parallele. Si ricrea così l’atmosfera delle cucine di un tempo, in cui tutto era gusto, trambusto e avventura, tra gli sbalzi di umore dei grandi e i capricci dei piccoli: il libro da leggere, la pietanza da preparare, gli ingredienti da scegliere e da dosare, gli strumenti da usare. Era l’arte e il piacere del raccontare, del cuocere, dello spadellare, dell’apparecchiare, del cibarsi, del servire a tavola, del mangiare, del bere, del digerire in pace, dello sparecchiare, del rigovernare. In una parola, “l’arte del convivere e quindi dello stare a tavola”.

Dell’organizzazione si è occupato un comitato, composto dai due dirigenti scolastici dei consolati di San Paolo (Alessandro Dell’Aira) e Belo Horizonte (Gianfranco Zavalloni); dal Vice Console e Presidente della Camera di Commercio di Campinas, Alvaro Cotomacci, in accordo con l’Assessore alla cultura e il Convention Bureau di Campinas; dalla lettrice di italiano alla UNESP di São José do Rio Preto, Alessandra Rondini; da Marco Galeotti, esperto di slow food. L’Istituto Italia di Cultura di San Paolo ha finanziato la realizzazione dei pannelli espositivi. Hanno collaborato, a San Paolo, la FECIBESP, Federazione degli Enti Culturali Italo-Brasiliani dello Stato di San Paolo; a Campinas, la Secretaria de Turismo della Prefeitura locale; a São José do Rio Preto, l’Area di Italiano della UNESP, Universidade Estadual Paulista, con la docente Claudia Zavaglia e i suoi studenti, autori della versione portoghese dei pannelli; e l’Associazione culturale italo-brasiliana “Amici d’Italia”.

Il percorso espositivo di tredici pannelli, riprodotto in tre serie originali, verrà presentato contemporaneamente, in occasione delle IX Settimana della Lingua Italiana nel mondo, nella Circoscrizione Consolare di Belo Horizonte (Casa Italia di Juiz de Fora) e in quella di San Paolo (Campinas, São José do Rio Preto). I libretti saranno esposti a Campinas. I disegni originali, a Belo Horizonte. In un programma integrato di manifestazioni sono previste conferenze e alcune degustazioni a Campinas e São José do Rio Preto, Juiz de Fora.

I temi sviluppati nei 13 pannelli sono, oltre all’introduzione al percorso:

  • 01 Piatto? No, ma gustoso
  • 02 Distillare è cospirare
  • 03 Navegar necesse est
  • 04 Prede e predatori
  • 05 Virtù e necessità
  • 06 Chi mangia chi
  • 07 Cavoli a merenda
  • 08 Giù in fondo al tegame
  • 09 Acquolina in bocca
  • 10 L’alibi del gourmet
  • 11 Leccornie
  • 12 Carne tenera

Per ulteriori informazioni e per visionare il programma completo:

http://www.scuolabh.org
http://www.iicsanpaolo.esteri.it
http://www.povo.it/libropiatto


roberto papetti

I giocattoli per capire arte scienza e tecnologia

In occasione della IX settimana della Lingua Italiana nel mondo, l’Ufficio Scuola del Consolato di Belo Horizonte, in Brasile, ha organizzato un serie di iniziative con la presenza del Ludotecario ravennate Roberto Papetti. Presso la scuola italo-brasiliana Fondazione Torino, grazie al contributo delle case editrici Artebambini di Bazzano ed Editoriale Scienza di Trieste, sarà effettuata una mostra di libri didattici sull’arte e sulle scienze e un corso di formazione per docenti sul tema:

I GIOCATTOLI COME STRUMENTO DI EDUCAZIONE ALLA SCIENZA, ALL’ARTE E ALLA CREATIVITÀ

Conduttore: Roberto Papetti
Luogo: Fondazione Torino – Scuola Biculturale e bilingue italo-brasiliana
Data: 5 – 19 ottobre 2009 presso Fondazione Torino

Il calendario degli appuntamenti

· Martedí 6 ottobre 2009 ore 16,00 – Incontro con Roberto Papetti su COSTRUIRE INSIEME UNA MAPPA LOCALE (rivolto ai coordinatori del Progetto per la realizzazione della GUIDA DI BELO HORIZONTE in Italiano)

· Martedí 6 ottobre 2009 ore 19,30: Presentazione dei libri del Dirigente Scolastico Eugenio Scardaccione TU BOCCI. IO SBOCCIO – Edizioni Meridiana (Molfetta) e TU SECCHI. IO FIORISCO. Sogni, viaggi e ricordi di un educatore impertinente Ed Progedit. Sarà presente l’autore (Incontro a cura dell’Istituto Biaggi presso Socrates – Momo Café – Savassi)

· Mercoledí 7 ottobre 2009 ore 16,00 – Inaugurazione Mostra “FRA ARTE E SCIENZA – Per una didattica dell’arte e della scienza”. Presentazione dei libri didattici sulle scienze e l’arte con la presenza di RobertoPapetti, autore dei due libri: La scienza in altalena (Editoriale Scienza) e Tintinnabula, giocattolo museo (Edizioni Artebambini)

· Giovedí 8 ottobre 2009 ore 16,00 – Incontro di Formazione specificatamente per docenti primaria: LA SCIENZA IN ALTALENA: le regole scientifiche nei giocattoli dei bambini

· Venerdí 9 ottobre 2009 ore 16,00 – Incontro Formazione specificatamente docenti infanzia: ARTE E CREATIVITÁ ALLA SCUOLA D’INFANZIA

· Mercoledí 14 ottobre 2009 ore 16,00 – Incontro di Formazione specificatamente per docenti media: IL MOSAICO BIZANTINO: STORIA, CULTURA, DIDATTICA nella esperienza di Ravenna

· Giovedí 15 ottobre 2009 ore 16,00 – Incontro di Formazione specificatamente per docenti superiori: LA FESTA AL P GREGO – IL 3,14, FRA FILOSOFIA E MATEMATICA

· Venerdí 16 ottobre: Laboratori pratico su GIOCO, ARTE E SCIENZA in tre turni con orario:
1º turno > 08,30 – 10,30
2º turno > 11,00 – 12,30
3º turno > 14,00 – 15,30

Chi è Roberto Papetti – A Ravenna, Roberto Papetti è l’anima del Centro La Lucertola, una Ludoteca del Comune di Ravenna che si autodefinisce “Laboratorio di Gioco Natura Creatività” . Alla Lucertola si coordinano le attività di educazione ambientale, scienza, gioco, arte e paesaggio, diritti dei bambini. Sono i temi che Roberto Papetti affronta attraverso laboratori formativi, i laboratori scolastici, e le iniziative rivolte sia ai bambini che alle scuole, come sono ad esempio le feste pubbliche e le pubblicazioni.

Roberto Papetti ha però una particolarità: non spiega il gioco, non parla di l’ecologia e di arte, ma lavora per il gioco e costruendo giocattoli, gioca facendo vivere l’ecologia nel concreto, produce e stimola i ragazzi a produrre arte. Non è un educazione agli alunni ma con gli alunni. In ambito educativo ecologia ed ambiente non sono quindi limitati ad una consapevolezza di dati biologici e geografici, ma è piuttosto il vivere e capire le relazioni tra comportamenti umani ed ecosistemi, responsabilità e difesa di ogni organismo vivente.

Vivere il gioco, poi, non è solo per Papetti, difesa di un diritto negato ma riconquista di spazi, tempi di gioco, strumenti e ripresa di una tradizione. In ambito artistico, l’arte è vista non solo come consapevolezza di giacimenti storico-culturali ma come ricerca di una estetica del vivere, che nasca dalle emozioni degli incontri. Durante la sua permanenza in Brasile, Roberto Papetti fará diversi interventi di tipo formativo, con proposte anche di laboratorio pratico.
Al suo attivo diversi libri, fra cui:

Piccoli gesti di ecologia
Giocattoli del mondo
Giocattoli creativi
Tintinnabula: giocattolo museo

Per ulteriori informazioni su Roberto Papetti: http://www.racine.ra.it/lucertola
Per le Edizioni Artebambini: http://www.rivistadada.it
Per le Edizioni Editoriale Scienza: http://www.editorialescienza.it


cesare pavese

La casa sconosciuta di Cesare Pavese

VISITA AL LUOGO CHE RAPPRESENTA L’URTO PIƯ IMPORTANTE NELL’ESISTENZA DI UN GRANDE SCRITTORE

“Credere alle cose vuol dire lasciar sussistere
qualcosa dopo la propria morte,
e avere, in vita, la soddisfazione di venire a contatto
con ciò che sussisterà ancora dopo di noi.”
(Cesare Pavese-Il mestiere di vivere-5 Febbraio 1939)

Ha persino rischiato di essere demolita, la casa nella quale, nel 1935, Cesare Pavese trascorse il confino a Brancaleone Calabro. Dimenticata e lasciata in uno stato di abbandono a lungo, questa abitazione conserva ancora il letto, la scrivania, la lampada a carburo, l’umidità sui pavimenti e la solitudine dello scrittore.

Il comune di Brancaleone ha dato la cittadinanza onoraria a Golia, un esemplare di Caretta Caretta tra i tanti che schiudono le uova sul bellissimo litorale dei gelsomini, ma non si era preoccupato di affiggere una targa sulla porta della casa dello scrittore, per ricordare una presenza così importante in paese. Qui, è più facile puntare sulla festa della madonna del Carmelo che “credere alle cose”che sussistono nel tempo.

In questi settantaquattro anni, nessuno si è impegnato per riconoscere alla casa, il valore emblematico di luogo cardine di un’esistenza. Persino durante il cinquantenario e il centenario pavesiano (2008), si è dovuta ignorare la possibilità di accedere a questa risorsa.

Ma gli abitanti non dimenticano “u professuri” ed è per strada che ti indicano dove devi andare. E’ nei bar che si ricorda Cesare Pavese. La gente di questo posto è ancora quella descritta dall’autore, “di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”(Lt I, pag 88).

Così, puoi bussare ad una porta e scommettere in un invito a pranzo, per sentire com’è l’odore delle alici fritte nelle stanze dove visse Cesare Pavese e per ritrovare i segni di un destino nelle cose.
Acquistata da un privato solamente di recente, la villetta è ora, fortunatamente, in via di ristrutturazione.

A pochi passi dal Bar Roma, dove Cesare Pavese andava a leggere il giornale, la casa viene scavalcata dai binari che si stendono di fronte al mare.
Dalla porta-balcone del giardino, si accede alla camera di Pavese.

Le cose sono ancora vive e conservano la sua presenza.

La finestra, la scatola dei libri che gli venivano inviati dalla sorella, la lampada, la lanterna arrugginita. Tutto rivive ed è illuminato dagli aneddoti raccontati dagli abitanti di Brancaleone. Dicono che Pavese pagasse dei bambini affinché schiacciassero gli scarafaggi in casa. Riportano la testimonianza dell’ultimo che lo conobbe in paese: un signore da poco deceduto, che ricevette ripetizioni di latino dallo scrittore. Questo piccolo allievo era stupito che il suo insegnante fosse l’uomo giunto in manette in paese.

Per capire l’importanza che ha questo luogo per la cultura italiana e internazionale, basti pensare che proprio su questa scrivania, Cesare Pavese iniziò a scrivere Il mestiere di vivere- diario che va dal 1935 al 1950. Il diario raccoglie le riflessioni dell’autore fino a pochi giorni prima della sua risoluzione al suicidio. L’esperienza in Calabria si riversa in molte delle sue opere e soprattutto, nel suo primo romanzo: Il carcere.

Brancaleone è la meta necessaria, il termine di mezzo utile per la mitizzazione del luogo sacro- quello natio delle Langhe. Brancaleone è l’avvio di una crisi esistenziale che precipiterà nel triste destino dello scrittore.

LA STORIA

Il 15 maggio 1935, Cesare Pavese viene condannato a tre anni di confino in Calabria. Ma si sono sbagliati. Pavese non è l’uomo delle rivoluzioni violente. Combatte il grigiore delle coscienze introducendo nuove prospettive in Italia, attraverso la traduzione dei capolavori stranieri e l’Antologia americana- curata da Elio Vittorini . Ma Pavese è innocente. Non è impegnato attivamente nell’antifascismo. La lettera di un carcerato, trovata durante la perquisizione tra le sue carte, è indirizzata a Tina Pizzardo, la donna che lo scrittore sceglie di coprire, fino a farsi condannare. La donna che ama- ma che al suo ritorno dopo un anno, avrà già sposato un altro.

Cesare Pavese giunge così, a Brancaleone il 4 agosto. Il mare delimita l’orizzonte: è “la quarta parete” della sua prigione. La natura selvaggia e oracolare mostra “il dio incarnato …in questo luogo”. Le “rocce rosse lunari” di quei posti, non esprimono nulla che gli appartenga, che gli sia nel sangue.

La permanenza in Calabria sancisce il passaggio dalla lirica alla prosa. Nasce così Stefano, il protagonista de Il carcere- controfigura di Cesare Pavese che ci racconta la vicenda interiore dei suoi giorni da confinato. La forbice che si crea tra personaggio e scrittore si stringe attorno al comune senso di prigionia ineludibile. Il fascino per la donna caprina, selvaggia, il concetto di vita possibile solamente nella memoria. L’inamovibilità, l’assenza della spinta all’ azione, le cose che accadono, il destino, la superstizione, la solitudine.

Un libro assolutamente da leggere. A Brancaleone Calabro.


bulgaria

Bulgari tra eternità e storia 1884-2009

Anni di studi su Bulgari hanno permesso di approfondire la storia di questo marchio e ciò che esso rappresenta oggi nel mondo. La raccolta e l’analisi dei documenti hanno ricostruito un’epopea che attraversa le epoche e le frontiere, tramandando quel gusto per l’innovazione e il dettaglio diventati uno stile inconfondibile.

Per la storiografia del gioiello è un capitolo molto importante. Che inizia a sua volta con un’altra storia: quella di Sotirio Bulgari, il fondatore. La sua visione, l’originale ricongiunzione di Grecia e Roma classica,l’audacia del viaggio che come un’odissea moderna lo porterà a Corfu e a Napoli, fino a raggiungere la nuova capitale dell’Italia unita, hanno del resto origini ancora più antiche.
Nato poco dopo la metà dell’Ottocento sui monti dell’Epiro attraversati dall’Acheronte, fiume dell’Ade, e dominati dal tempio di Zeus a Dodona, Sotirio Bulgari respira sia il mondo del mito sia l’arte del metallo, che nel suo territorio viene tramandata fino dall’epoca bizantina. La forza dell’immaginario classico e quella di un’abilità tecnica millenaria danno a Sotirio Bulgari coraggio, visione, e un bagaglio di speciale sensibilità: i fermenti che iniziano ad animare il mondo gli faranno superare i confini e gli stili.

Fino dai primi decenni del Novecento Bulgari partecipa al movimento Art déco, destinato a cambiare il gusto dell’intero Occidente, e di lì in avanti continua a introdurre nella tecnica e nell’estetica innovazioni decisive. Dopo la magnificenza degli anni cinquanta e il “rinascimento del colore” nel decennio successivo, Bulgari identifica il glamour della pop art. Nei wild eighties nasce la gioielleria prêt-à-porter: il modo di pensare e di produrre gioielli cambia di nuovo.

In questi ultimi anni, grazie a un lavoro lungo e ininterrotto, sono stati costituiti l’archivio e la collezione storica dei gioielli Bulgari, ed è stato reso così possibile l’ampliamento della monografia che racconta e spiega questa storia. È stato riorganizzato un patrimonio culturale che comprende migliaia di documenti, foto e disegni originali, e una selezione dei migliori pezzi della produzione Bulgari, rintracciati e riacquistati non senza qualche comprensibile difficoltà.

Un materiale così ricco e appassionante non poteva sfuggire all’interesse pubblico: nasce così questa importante retrospettiva. La mostra celebrerà sia il fondatore, sia l’intreccio della storia di Bulgari con quella della capitale. Ma non solo: il 2009 è infatti il 125° anniversario dell’apertura del primo negozio nella Città Eterna, da cui cominciò a irradiarsi il gusto per un nuovo concetto di stile, dalle radici profonde e dai frutti preziosi.

Oggi Bulgari è per le pietre colorate il primo gioielliere del mondo e il suo stile, basato sull’innesto dell’eredità greca su quella romana, è riconosciuto ovunque e resta inconfondibile in tutte le sue evoluzioni.

Il Palazzo delle Esposizioni di Roma, edificato nel 1883 a poche centinaia di metri dai luoghi in cui il giovane Sotirio si stava affermando come gioielliere di successo, presenterà circa quattrocento tra gioielli, orologi e oggetti preziosi realizzati da Bulgari in più di un secolo. La maggior parte non è mai apparsa in pubblico, perché appartiene a collezionisti privati e «vive» in cassaforte. Altri pezzi provengono dalla Collezione Vintage Bulgari, un’antologia museale permanente di oggetti fuori commercio. Verranno esposti anche disegni, documenti originali e testimonianze fotografiche dei clienti più celebri: industriali, aristocratici, artisti famosi, divi del cinema.

Bulgari. Tra eternità e storia 1884-2009. 125 anni di gioielli italiani
Palazzo delle Esposizioni
Via Nazionale, 194

da Lunedì 15 Giugno a Domenica 13 Settembre 2009
Martedì, mercoledì e giovedì ore 10.00 – 20.00. Venerdì e sabato ore 10.00 – 22.30. Domenica ore 10.00 – 20.00. Chiuso lunedì

Contatti:
tel. 0039 06 39967500
sito ufficiale www.palazzoesposizioni.it


La Settimana della Lingua Italiana nel Mondo

La “Settimana della Lingua Italiana nel Mondo” nasce nel 2001 da un’idea dell’Accademia della Crusca, massima istituzione a custodia della nostra lingua, e della Direzione Generale per la Promozione e Cooperazione Culturale. Essa è ormai un evento consolidato che, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, ogni anno acquisisce maggior forza e un numero sempre più grande di adesioni da parte di Istituti di cultura e Ambasciate, che dimostrano un grande sforzo organizzativo per proporre manifestazioni di grande qualità.

La lingua è parte integrante della cultura di un paese, ma è soprattutto il veicolo privilegiato per trasmetterla al di fuori dei confini nazionali. Proprio per questo la Settimana è stata pensata come un contenitore di eventi che abbiano per comune denominatore la promozione dello studio e l’approfondimento della lingua italiana. La Svizzera, Paese in cui l’italiano è una delle lingue nazionali, è sin dalle prime edizioni associata a questa iniziativa.

Per una settimana in tutta la rete estera del Ministero si tengono eventi di vario tipo incentrati appunto sulla lingua italiana e aventi come filo conduttore un tema che cambia di volta in volta. La scelta del tema è molto importante perché esso deve prestarsi ad accomunare tutta una serie di eventi; dunque più il tema è valido, più iniziative si riescono a creare. Ognuna delle sedi estere declina questa tematica in modo diverso e originale, dimostrando così le grandi potenzialità della nostra rete di Ambasciate ed Istituti di Cultura, che, se stimolata in maniera opportuna, può produrre risultati di grande impatto e ad elevato livello quantitativo.

Si può dunque considerare la Settimana della Lingua come la principale manifestazione di promozione linguistica che, edizione dopo edizione, accresce il numero di eventi proposti: più 30% nel 2006, più 15% nel 2007, dal 2005 gli eventi sono aumentati di oltre il 50%.

L’ultima edizione, l’ottava, il cui tema è stato “L’italiano in piazza” si è svolta dal 20 al 26 ottobre 2008 e ha visto la realizzazione di un numero di circa 1600 eventi in 95 Paesi.

L’edizione 2009 della “Settimana” (19-25 ottobre) ruoterà invece intorno al tema de “L’italiano tra arte, scienza e tecnologia”, in concomitanza con il ricorrere di alcuni significativi anniversari quali i 400 anni dalle prime osservazioni astronomiche compiute da Galileo con il cannocchiale, i cento anni dalla nascita del Futurismo, e la proclamazione del 2009 quale “Anno Internazionale dell’Astronomia” da parte dell’Onu.


letteratura cinese

La letteratura italiana e la Cina

Lo dimostrano i fatti. Dai dirigenti riformatori della fine dei Qing, Kang You-wei e Liang Qichao, fino a dirigenti del Partito Comunista Cinese come Zhang Wentian, da eminenti scrittori e poeti come Guo Moruo, Mao Dun, Lin Yutang, Ba Jin, Xu Zhimo, Su Manshu, Wang Duqing, fino a studiosi del calibro di Hu Shi o Qian Zhongshu, la crema dell’intellighentsia cinese si dedicò senza ecce-zione alcuna, con traduzioni e saggi, a diffondere in terra cinese la letteratura italiana, guadagnandosi molti meriti nei rapporti fra le letterature cinese e ita-liana. Uno dei corifei della rivoluzione letteraria cinese del Quattro Maggio [1919], Hu Shi, pubblicò fra il 1917 e il 1918 molti saggi di seguito sulla rivista “Gioventù nuova” [La jeunesse, Xin Qingnian], elevando Dante a modello per la costruzione di una nuova cultura e di una nuova lingua nazionale e portandolo alle stelle. Il prof. Qian Zhongshu, dall’ineguagliabile erudizione, nelle sue pub-blicazioni accademiche citò le opere di oltre 90 poeti e scrittori italiani, alcuni dei quali malnoti perfino agli studiosi italiani, e operò confronti con la lettera-tura classica cinese. Egli aveva una predilezione speciale per il Leopardi, che ci-tò in quasi 30 passi.

Per motivi storici, gli scambi letterari sinoitaliani tacquero per un certo perio-do. Nel 1970, la Cina e l’Italia allacciarono le relazioni diplomatiche e, a partire dalla fine degli anni Settanta, la Cina avviò una politica di riforme e apertura all’estero. Ciò creò un insieme di fattori esterni ed interni assai giovevoli agli scambi letterari sinoitaliani e la diffusione della letteratura italiana in Cina en-trò in una nuova fase, di inedita floridezza, in una nuova atmosfera e con ca-ratteristiche nuove assai soddisfacenti.

Da tempo si è finalmente conclusa la fase storica in cui la letteratura italiana veniva tradotta per il tramite di un’altra lingua, l’inglese, il francese, il russo, il giapponese. Grazie agli sforzi di un gruppo di traduttori e studiosi versati nella lingua e nella cultura italiane, i Cinesi possono leggere opere letterarie italiane tradotte direttamente dalla lingua originale. È una svolta storica di cui ralle-grarsi. Dagli anni settanta del sec. XX a oggi, centinaia e centinaia di roman-zieri, poeti e drammaturghi italiani sono stati presentati ai Cinesi, mentre di molte opere celebri sono comparse varie traduzioni, per esempio della “Comme-dia” di Dante e del “Decameron” di Boccaccio circolano oggi quattro versioni, due de “I promessi sposi” del Manzoni, e nuove versioni vedranno presto la luce. Le traduzioni dell’ “Infinito” leopardiano sono oltre cinque. Le opere poetiche di Montale e Quasimodo, a quanto so, compaiono in almeno 30 antologie di poe-sia straniera pubblicate in varie parti della Cina. L’esistenza e la concorrenza di traduzioni diverse permettono al lettore di cogliere il fascino artistico dell’ opera originale tramite le versioni migliori.

Dagli anni novanta del XX secolo, sono state pubblicate in successione una serie di grandi collane di letteratura italiana; altre lo saranno, non appena completata la compilazione. Ad esempio, nel 1990 ha visto la luce la “Collana di letteratura antifascista italiana”, che raccoglie 9 opere, fra cui “Fontamara” di Ignazio Silone, “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, “Cronache di po-veri amanti” di Vasco Pratolini, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, “Uomini e no” di Elio Vittorini, “Il deserto della Libia” di Mario Tobino. Nel 1993 la “Colla-na di letteratura italiana del XX secolo” ha raccolto10 opere di Svevo, Buzzati, Calvino, Moravia, Sciascia, Malerba, Cassola e Soldati. La “Collana di classici italiani”, la cui redazione è ormai completata, sta pubblicando 12 opere di grandi letterati, dal Rinascimento al XX secolo. Seguiranno poi le “Opere scelte di Italo Calvino” (13 opere) e le “Opere scelte di Alberto Moravia” (5 opere). La pubblicazione di serie di collane supererà lo stato di frammentarietà e disper-sione della letteratura italiana e colmerà una lacuna, permettendo al lettore cinese di conoscere sistematicamente e integralmente la letteratura italiana.

In seguito all’approfondimento degli scambi, le traduzioni di letteratura italia-na non si limitano più al solo realismo, ma si occupano equanimemente di au-tori di multiformi tendenze e delle più varie correnti, scuole e stili letterari. Al-cuni scrittori e scuole negletti e sottovalutati, come la poesia futurista, l’esteti-ca dannunziana, il teatro di Pirandello, sono stati giustamente rivalutati e le lo-ro opere vengono pubblicate le une dopo le altre. Testi pirandelliani come “Ve-stire gli ignudi”, “Sei personaggi in cerca d’autore”, “I giganti della montagna” sono stati più volte portati sulle scene e sugli schermi.

Nel 1989, viene fondata a Pechino la Società Letteraria Italiana (Yidali wen-xue xuehui). Da dodici anni, in felice e proficua collaborazione con l’Istituto Ita-liano di Cultura dell’Ambasciata d’Italia, ha tenuto 12 simposi di letteratura italiana. Ogni anno, il governo italiano garantisce la partecipazione di scrittori e professori italiani affermati, che vi prendono la parola. Da parte nostra, vi invi-tiamo celebri scrittori, poeti e studiosi cinesi, come Wang Meng, Zhang Jie, Ji-dimajia, onde rafforzare i legami e gli scambi con il mondo letterario italiano e promuovere l’ampliamento e l’approfondimento dell’ opera di traduzione, studio, insegnamento e pubblicazione della letteratura italiana in Cina.Nel

1994, lo scrittore italiano Luigi Malerba venne in Cina per prendere parte al nostro convegno. Tornato in patria, scrisse articoli sui giornali e per la rete, dove considerava l’importanza dei rapporti culturali italo-cinesi. Una sua frase ha lasciato una profonda impressione:

La cultura è l’anima del commercio

Proprio così, e potremmo ricordare che Marco Polo nacque in una famiglia di mercanti e che furono il padre e lo zio, dediti ai commerci internazionali, a por-tarlo in Cina, ma che fu “Milione”, che gli diede fama mondiale, a permettere agli Europei di scorgere a Oriente un mondo incantato e a spingerli a diriger-visi. Dunque, le culture orientale e occidentale e gli scambi commerciali tra-sbordarono l’umanità in un’epoca nuova. La letteratura è uno dei mezzi più po-tenti di cui i popoli dispongano per approfondire la reciproca conoscenza e vei-colare i proprio sentimenti. Gli scambi fra culture diverse sono la ricchezza del-la storia umana. Disse lo scrittore argentino Jorge Luis Borges:

Un libro rappresenta una nazione

La funzione, impercettibile ma duraura, esercitata dalla letteratura sul pen-siero e sull’animo umano non può essere né svalutata né sostituita. Concedete-mi qualche altro momento per spiegarmi con due esempi.
Il celebre scrittore cinese Ba Jin scrisse molte opere, negli anni ottanta del XX secolo, per lo più ricordando i giorni tragici e neri delle persecuzioni che a-veva subito. A quei tempi, afflitto e disperato, recitava mentalmente, ogni gior-no, i versi della “Commedia” dantesca. Per lui, la situazione in cui versava era assai simile a quella descritta nell’ “Inferno” e poteva trarre dai versi del grande poeta italiano il coraggio per continuare testardamente a vivere e avere fiducia nella sua resistenza alle forze del male. È evidente, la letteratura dà una grande forza spirituale!
Il primo a tradurre dall’italiano in cinese la “Commedia” di Dante fu il pro-fessor Tian Dewang. Nel 1983, ormai settantaquattrenne, iniziò a tradurre il classico, adempiendo al voto di una vita. Poco dopo, tuttavia, per una grave malattia, perse le forze e gli si indebolì considerevolente la vista. Inforcati oc-chiali da miope molto forti e servendosi anche di una lente d’ingrandimento, o-gni giorno, con energia straordinaria, spingeva avanti instancabilmente la pen-na. Dopo 18 anni, nell’agosto di quest’anno, egli finalmente completò la tradu-zione dell’ultima terzina della terza cantica, il “Paradiso”. Un mese dopo, la ma-lattia lo costringeva a letto e ci abbandonava per sempre, mentre la sua anima volava nel paradiso del poeta italiano che aveva amato per tutta la vita. È evi-dente quanto sia ardua l’opera del traduttore, ma anche che impresa nobile sia!

Stiamo per dire addio al XX secolo e per entrare nel nuovo millennio. Un pro-verbio italiano dice:
Un bel giorno si vede dal mattino

Nel 2001 vedranno la luce la “Collana di classici italiani”, le “Opere scelte di Italo Calvino”, le “Opere scelte di Alberto Moravia” e le versioni cinesi di un gruppo di opere letterarie italiane. Questo buon inizio dimostra che, illuminati dalla luce del nuovo secolo, stiamo procedendo verso un domani di straordina-ria bellezza e fulgore negli scambi letterari fra Cina e Italia.


carracci

Il paesaggio in Carracci e nella pittura cinese

In realtà, il nostro artista non produsse mai alcun manifesto teoretico della propria arte; possiamo rifarci ad una orazione funebre in memoria di Agostino, fratello di Annibale, composta nel 1603 da Lucio Faberio, in cui gli ideali dell’Accademia degli Incamminati sono esaltati, primo tra tutti quello che vuole l’atto imitativo come un “miglioramento” della realtà, attraverso l’attenzione che l’artista deve riservare a ciò che colpisce, che è opportuno e favorevole. L’artista possiede l’abilità di cogliere “le intenzioni della Natura”.

Bisogna anche dire che i giudizi critici degli antichi (penso al Bellori e all’Agucchi) non resero giustizia ad Annibale Carracci: da qui l’etichetta di “eclettismo”, che ne provocherà la momentanea disgrazia nel XIX secolo. In realtà, nei suoi anni bolognesi, Annibale seppe conciliare i richiami classicisti di un Raffaello con gli stimoli provenienti d’oltralpe, che portarono la pittura felsinea a specializzarsi in grandi scene paesistiche con personaggi in primo piano. Si deve anche ricordare l’influenza esercitata dalla pittura veneziana di Tiziano, Tintoretto e dello stesso Veronese: non c’è eclettismo in tutto ciò, ma una continua ricerca, una espressione di ricettività.

Negli anni 1595-96, Annibale avrebbe eseguito i famosi affreschi di Palazzo Farnese * ; negli anni successivi, tuttavia, egli sarebbe stato vittima secondo alcune fonti di un “humor melanconico” (che oggi probabilmente chiameremmo depressione), che ne ridusse fortemente l’attività creativa, sino alla morte, avvenuta inopinatamente all’età di soli 49 anni. Sembra di poter dire che Annibale fu sempre come una spugna rispetto all’ambiente che lo circondava, anche emotivamente; e non è un caso se, dopo l’insoddisfacente pagamento ricevuto da Odoardo Farnese per il suo splendido lavoro, forse sentendosi minacciato dall’astro di Caravaggio,, egli ridusse di molto la sua produzione, esprimendosi in uno stile molto più rigido.

Annibale Carracci fu artista eclettico; ma oggi, il mio intervento sarà centrato su un ambito peculiare dell’opera di questo grande maestro bolognese: i suoi dipinti di paesaggio, entrati a far parte di una precisa categoria della critica d’arte, quel “paesaggio ideale” (in inglese ideal landscape) in cui avrebbero più tardi brillato i capolavori di Poussin e di Claude Lorrain. Durante questo breve intervento, potrete apprezzare alcuni capolavori creati dal Carracci in questo campo, mentre chi vi parla cercherà di circoscrivere il “campo semantico” della categoria del “paesaggio ideale”, per poi azzardare alcuni confronti con la pittura di paesaggio cinese tradizionale.

Bisogna innanzitutto osservare come nella pittura europea il paesaggio sia diventato protagonista delle opere pittoriche solo con la fine del Rinascimento. Ernst Gombrich già negli anni Cinquanta ricordava come lo stesso termine “paesaggio” appaia nei testi solo verso il 1520. Soprattutto in Nord Europa, il paesaggio comincia ad essere al centro dell’attenzione degli artisti e anche dei committenti (di estrazione, va detto, ben diversa dalle tradizionali classi nobiliari e/o ecclesiastiche, che in Italia costituivano il motore del mercato delle opere d’arte). Indubbiamente, il disgregarsi dell’unità anche mentale del mondo medievale aveva portato, oltre alla ben nota affermazione del primato dell’individualità, ad un ampliamento senza precedenti del mondo, ben riflesso d’altronde nelle continue scoperte geografiche, che andavano via via ampliando i ristretti confini del mondo conosciuto. Di qui un nuovo interesse per la natura, peraltro evidente in alcune correnti intellettuali dell’epoca, come il Neo-Platonismo.

È una natura tuttavia in cui l’uomo non è mai assente, insieme all’espressione dell’umano artificio: l’architettura. Sono punti su cui tornerò nelle considerazioni comparative finali. Potremmo dire che l’ideale della classicità, che aveva attraversato tutta la pittura del XVI secolo fino a sopravvivere stancamente negli esiti, peraltro artisticamente elevati, della pittura manierista, si scontra, a cavallo fra Cinquecento e Seicento, con un bisogno inedito di rappresentare la natura come centro della composizione e non più come sfondo.

Tanto Caravaggio quanto Annibale Carracci rappresentano in modo diverso questa esigenza che, senza voler intenzionalmente contraddire il classicismo, è destinata a orientarne in modo diverso le istanze, dando vita a un secolo, il Seicento, che per molti versi vien detto anticlassico.

È pur vero che anche nell’arte barocca sopravvive un forte spirito classico, ben visibile nel costante riferimento a Raffaello e nella diffusa aspirazione a una bellezza ideale, spesso coincidente con le nuove aspirazioni della Chiesa; ma la pittura si apre a scenografie inedite, percorse da un vibrante dinamismo che in Annibale Carracci inserisce i residui della tradizione iconografica nella luce di una natura idealizzata, che diventa per l’appunto una sorta di “scenografia” del creato.

Sull’aspetto “scenografico” della pittura di paesaggio di questo periodo, dobbiamo anche ricordare che, sin dal XV secolo, in Italia la rappresentazione di paesaggi era stata impiegata come un mezzo, appunto, scenografico, teso a decorare le pareti delle ville rurali dell’aristocrazia, o degli orti posti all’interno delle ricche residenze urbane. Già Leon Battista Alberti, il primo fra l’altro a parlare nel suo trattato teorico della “prospettiva lineare” in pittura, introduceva varie tipologie paesistiche relative a differenti “tipi di scenario”. Alberti riprendeva in questo la tradizione classica, citata da Vitruvio, dei dipinti decoranti gli ambulacri delle dimore-giardino della nobiltà romana, “rappresentanti immagini tratte da determinate caratteristiche di certi siti” (“ab certis locorum proprietatibus exprimentes”); veri e propri “tipi” paesistici, “paesaggi che si possono definire astratti, tanto sono ‘tipici’”, per citare ciò che ne disse il grande storico Pierre Grimal.

Successivamente, l’attenzione al paesaggio si concretizzerà in alcuni trattati generali sulla pittura: ricordiamo le opere di Sebastiano Serlio (1545) e di Cristoforo Sorte (1580), in cui, fra l’altro, l’aspetto “scenografico” dei tipi paesistici risalta anche dalla scelta dei “tre piani” da adottare-primo piano, piano intermedio e sfondo- per rendere la profondità della composizione pittorica: una scelta che suggerisce fortemente una struttura simile a quella di una rappresentazione teatrale, e che verrà ripresa nei suoi paesaggi da Annibale Carracci, con una definizione e una chiarezza del tutto nuove, che vanno al di là del tema del “lontano”, espresso da Raffaello e soprattutto da Leonardo.

Due dipinti di Annibale possono fungere da esempio di questa resa scenografica del paesaggio “tipico”: si tratta di due opere dedicate alle due attività della caccia * e della pesca *, oggi conservate al Louvre. Le loro stesse dimensioni (253×136 cm) attestano che esse erano destinate alla decorazione di una stanza, forse dello spazio della parete posto sopra una porta. Possiamo qui agevolmente riconoscere la resa dei tre piani di profondità, con le figure umane in primo piano. Ma naturalmente, Annibale non può più accontentarsi della resa “matematica” della profondità, peraltro già integrata nelle mirabili note di Leonardo sulla “prospettiva atmosferica”, cioè sull’effetto degli elementi atmosferici e meteorologici sulla visione del “lontano”: egli si serve del colore, o per meglio dire della maestria nel dosare differentemente l’intensità del colore, per rendere l’atmosfera e gli stessi contorni degli elementi paesistici, nonché quei giochi di luce che poi esploderanno pienamente nelle sue opere posteriori.

L’aspetto scenografico di una composizione paesistica “tipica”, con personaggi ed architettura, è infine pienamente affermato in questa deliziosa incisione su rame , il “Concerto sull’acqua”*, in cui possiamo quasi immaginarci gli elementi architettonici del piano intermedio come una quinta teatrale, sulla cui parte superiore è infine dipinto lo sfondo paesistico.

Un altro felice esempio della produzione pre-romana carracciana è questa “scena fluviale” *, conservata alla Washington National Gallery of Art, ed eseguita verso il 1590. Qui emerge un altro elemento fondamentale nei paesaggi ideali di Annibale: l’acqua. (si veda anche questo schizzo preparatorio, un paesaggio fluviale con barche *. Che siano lingue di terra, gente in barca, piante acquatiche, l’acqua è sovente paredra ideale di questi elementi, accompagnata da una percezione dell’umidità atmosferica, resa da un sapiente uso dei toni, che risente indubbiamente dell’influenza della tradizione veneziana di un Tiziano o di un Tintoretto.

Così il paesaggio, che pure è parte integrante di tutta la storia della pittura, diviene finalmente, con Annibale, un genere, acquistando una sua mirabile autonomia. Se dunque la pittura barocca sorge da un lato come deviazione dall’ideale classico in contrapposizione alla verità di natura, dall’altro in essa questo ideale sopravvive come aspirazione virgiliana a un tempo e un luogo felici, dove è possibile immergersi: il riferimento a Virgilio è quanto mai opportuno, se pensiamo alla potenza dell’influsso del tema dell’Arcadia, ideale mondo rurale cantato da Virgilio nelle Ecloghe (ma non solo da lui: si pensi a Teocrito), sulla pittura di paesaggio di Annibale, e in seguito di Poussin.

Grande è l’abilità del Carracci, al suo arrivo a Roma, nell’adattare le sue esperienze con i criteri romani: ciò porterà ad una evoluzione dei suoi “paesaggi ideali”. Basti osservare uno dei suoi capolavori, la lunetta della “Fuga in Egitto” (1603)*, dove i personaggi sacri paiono fondersi nello scenario naturale, in una pittura “al limite fra cristianità e paganesimo”. Siamo fra il 1603 e il 1604 e già ha inizio “la vicenda del paesaggio moderno in Italia come scoperta della poesia della campagna romana” e le lunette della Fuga in Egitto e della Deposizione di Cristo per la cappella di palazzo Aldobrandini al Corso, si pongono a fondamento “di una ritrovata verità morale fra l’uomo e la natura”. C’è qui piena armonia ed equilibrio fra i lati della composizione e gli strati della profondità pittorica, organizzati attorno ad un asse centrale, in cui ritroviamo la Sacra Famiglia in primo piano e un gruppo di edifici che torreggiano sullo sfondo intermedio. Tutto in quest’opera parla di un sottile, ricercato equilibrio emozionale fra il dramma umano e la varietà, quasi enigmatica, della natura.

Ma si osservi anche un’altra opera di tema evangelico, la Maddalena pentita * del 1598, e un San Giovanni Battista *, e soprattutto unPaesaggio fluviale *, che siamo costretti a definire “romano”, in quanto romano è indubbiamente il vocabolario architettonico degli edifici che torreggiano in piano intermedio. Il tema dell’architettura, spesso massiccia, posta a livello mediano nella successione dei livelli di profondità, è reinterpretato da Annibale anche sull’influsso della pittura olandese, ben nota negli ambienti bolognesi da cui egli proveniva.

Inoltre, i temi eroici o pii di molte opere del periodo romano non devono farci dimenticare che il linguaggio di fondo è sempre quello, pagano, della natura. Basti osservare l’atteggiamento della Maddalena carracciana, simile certo più nella sua posa ad un filosofo meditabondo che al personaggio evangelico: un femminino qui certo “controllato”, razionale, ma perfettamente a suo agio e “inquadrato” nel mondo perennemente fertile e lussureggiante della Natura, che qui sembra quasi fare da grembo. Che siderale distanza dalla tradizione canonica, che vuole la Maddalena pentita rifugiarsi nel deserto !

Ma riprendiamo il filo conduttore del nostro discorso: il concetto di “paesaggio ideale”. Da dove esso trae origine ? E quale ne è il senso ?

In realtà, il termine “paesaggio ideale” è sempre stato associato alle opere di Annibale Carracci, e poi di Poussin e di Claude Lorrain, ma quanto ai contenuti di tale etichetta, gli studiosi hanno espresso opinioni non sempre concordi. Essa fu coniata forse da Joseph Gramm in un suo studio del 1912, il quale però considerava lo “ideale Landschaft” come un elemento universale della storia dell’arte; fu Kenneth Clark nel 1949 a collegare il termine con l’abilità del Carracci nel costruire paesaggi di una musicale, cristallina chiarezza. Inutile descrivere le posizioni degli altri studiosi che si sono interessati al problema: potremmo riassumere la questione, affermando che nel “paesaggio ideale”, per citare Margaretha Rossholm Lagerlof, abbiamo questi elementi di un vocabolario artistico:

Soggetti antichi (biblici e mitologici), ed una ambientazione nel mondo antico; uno spazio pittorico razionale e strutturato, che produce regolarità, o armonia ed equilibrio; la natura come co-creatore delle azioni umane e soggetta alla moralità umana, la natura interpretata in base ad una volontà misteriosa o magica, o percepita come un umore-contemplativo e pregno di qualità e ritmo musicali […]. Una caratteristica sia fondamentale che comune […] è un tipo di spazio pittorico in cui livelli successivi creano una impressione di profondità; primo piano, piano intermedio e sfondo sono visti come una serie di strati paralleli al piano pittorico, ed uniti da dolci linee diagonali a zigzag.

Il paesaggio ideale, spesso incline a un gusto letterario, è dunque prevalente nel XVII secolo, la cui civiltà pittorica, da considerarsi ormai in dimensione europea, opera scelte moderne, decisamente orientate a criteri di bellezza e verità, che se trovano la loro radice nell’estetica rinascimentale, trasferendosi in seno alla natura ne subiscono le insidie e i contrasti, destinati a riformulare il linguaggio pittorico in modo per l’appunto moderno, adatto a recepire ogni tipo di contraddizione e a nutrirsi di quello spirito critico, che resta la grande innovazione del XVII secolo anche per i secoli a venire. Da allora l’ideale classico, riaffiorando come conquista interiore e discernimento critico, appartiene all’estetica e quindi all’idea del bello, ma non necessariamente alla metafisica, giacché nel paesaggio del XVII secolo si concilia con la natura, dischiudendo la strada a una pittura che sa interpretare la realtà.

(c) 2009, Prof. Maurizio Paolillo, Ordinario dell’Universita’ di Lecce.


matteo ricci

Il Palazzo della Memoria di Matteo Ricci

La missione di Matteo Ricci in Cina è una straordinaria storia di strenuo lavoro, diplomazia, cultura, religione, stile di vita e successo: in questo caso la realtà è molto più eccitante e sorprendente di qualsiasi finzione e va oltre ogni immaginazione. Il grande contributo di Matteo Ricci alla storia del genere umano deve ancora essere apprezzato nella sua interezza, essendo la sua vita stessa un gioiello dalle mille sfaccettature, che moltiplica da luce che riceve da ogni angolo lo si guardi.

Qui ci concentreremo principalmente su uno dei numerosi aspetti delle attività e dei talenti di Matteo Ricci: la sua abilità di comunicazione (“da P.R.” diremmo oggi) e la sua capacità di combinare le due culture (occidentale e cinese) in un sistema capace di coniugare ambedue le immense tradizioni: i Classici Romani e i Classici Cinesi. Matteo Ricci era, nel suo campo, un uomo del Rinascimento, alla stregua di Michelangelo e Leonardo da Vinci per le Arti e le Scienze. Era portato per le Arti (Belle Arti, Scienze Naturali, Letteratura Classica occidentale, e Musica) ma anche in altre discipline: sapeva come stampare libri, riparare orologi e pendoli, costruire case e si intendeva di agricoltura. Senza menzionare il suo sapere concernente le religioni e le Sacre Scritture.
Può essere considerato a tutti gli effetti un “uomo enciclopedico”, come tanti prima di lui hanno aspirato ad essere (Dante Alighieri, Pico Della Mirandola, Giordano Bruno tra gli altri). Si trovava a proprio agio sia presso la Corte Imperiale di Pechino, sia nella più umile casa di qualsiasi comune cinese.
Tale straordinarietà era dovuta al suo generoso temperamento e al carattere innato, ma anche al suo rigore e alla educazione d’alto livello che ricevette alle scuole di Macerata, la sua città natìa, e a Roma, al Collegio dei Gesuiti (al tempo la culla delle migliori menti d’Europa).Al Col

legio Romano imparò infatti i Classici e le discipline regolari, nonchè le più raffinate e segrete capacità dell’ “arte della memorizzazione”.
Noi lasceremo parlare le tecniche e la storia dell’ “arte delle arti” attraverso i grandi lavori di Spence e della Yates.

Il nostro obiettivo, qui, è dare accenni su come Matteo Ricci potesse avere preparato un sistema di memorizzazione (per vari scopi: dall’apprendere la cultura cinese, al trasmettere i valori della religione cristiana) adattabile alle menti dei suoi discepoli cinesi, e a cosa quel sistema potesse somigliare.

L’arte della memorizzazione è, di fondo, un sistema ricomprendente l’Universo nei suoi innumerevoli aspetti.

L’Universo, inafferabile agli occhi del profano, è coerente nelle menti dei pochi dotati che possano afferrarne il meccanismo e le relazioni fra i suoi elementi. L’importanza di Confucio nella tradizione cinese è paragonabile all’importanza di una catena di studiosi occidetali iniziati alla cosiddetta affiliazione “neo-platonica”, cui Matteo Ricci era manifestatamente interessato.
L’arte della memorizzazione è principalmente la costruzione di un “palazzo virtuale” nella mente dell’adepto.

Relazionandola agli insegnamenti dell’Antica Grecia, dell’Antica Roma e del Medioevo, così come organizzata da studiosi quali Cicerone e San Tommaso, la disciplina prevede la visualizzazione di stanze, o spazi, riempiti di oggetti o immagini collegati a concetti e parole.

Ciascuna stanza può essere collegata alle stanze per consequenzialità o per affinità. Un esempio: ancora oggi, in Italia, gli studenti di medicina ricordano i nomi delle ossa della mano immaginando la seguente sequenza: “una barca a forma di semiluna arriva alla Piramide di Pisa portando a bordo un trapezio, un trapezoide, e una testa appesa ad un uncino”.
L’indovinello simbolico rimanda semanticamente alle seguenti parole:

  • barca = Scafoide
  • semiluna = Semilunare
  • Piramide = Piramidale
  • Pisa = Pisiforme
  • trapezio = Trapezio
  • trapezoide = Trapezoide
  • testa = Capitatouncino
  • = Uncinato

Al tempo di Matteo Ricci la pratica suddetta era comune e gli studenti erano soliti applicarla ad ogni disciplina da studiare, creando catene e enigmi a ripetizione e facendoli corrispondere, col passare degli anni, ad ben organizzate ed effettive strutture mentali: è molto più semplice per il pensiero andare avanti e indietro, percorrere corridoi e stanze pianificate, sulla base di una planimetria conosciuta, piuttosto che errare in un disordinato labirinto senza fine.

Potremmo dire che cotale sistema sia l’antesignano di un “videogame” mentale: l’intenzione finale è, ad ogni modo, completamente differente. L’arte della memorizzazione è lo sforzo di allineare la mente con l’armonia dell’Universo, seguendo le stesse regole dettate in illo tempore dalla Mente Divina.

Sfortunatamente Matteo Ricci non lasciò ai posteri una descrizione dettagliata del Palazzo della Memoria costruito nella sua mente durante gli anni trascorsi in Cina.
Nel suo libro sulla memoria egli lasciò solo scarne indicazioni di taluni contenuti, a loro volta fonte di ispirazione del libro di Jonathan Spence: principalmente sunto di idee e immagini mentali, ma lontano dal quel palazzo virtuale aspirante ad essere lo specchio del Creato.

Sappiamo, inoltre, che Matteo Ricci insegnò l’arte della memorizzazione ad alcuni candidati agli esami di Mandarinato, tra cui spicca Xu Guanqi stesso, il quale – come sappiamo – ne conseguì straordinario successo.

Ricci certamente ammobiliò un “Palazzo della Memoria” al fine di consentirgli la memorizzazione delle migliaia di caratteri cinesi che più tardi l’avrebbero abilitato a divenire un riverito studioso cinese. Probabilmente usò nuove idee, immagini, concetti in un “Palazzo della Memoria” già presente nella sua mente dagli anni del suo apprendistato a Roma.
Ricci ha certamente dato a Xu Guanqi e ai suoi altri studenti le tecniche per costruire nuovi Palazzi della Memoria e forse le “chiavi celestiali” per aprire il suo stesso palazzo virtuale. L’arte classica della memorizzazione raccomanda effettivamente che ognuno formi un proprio palazzo della memoria con segni, connessioni e immagini personalizzate.
Ma le regole per la sua costruzione dovrebbero essere le stesse per tutti.

Potremmo allora procedere per ipotesi.

Matteo Ricci certamente conosceva i procedimenti di Giulio Camillo Delminio, uno studioso italiano che fu una delle più famose e celebrate figure d’Europa nel XVI secolo.
Giulio Camillo aveva creato un “palazzo della memoria” con la forma della gradinata di un teatro, basata sul numero “7” e i suoi multipli.
Questo palazzo virtuale conteneva 49 scatole, o stanze, correlate da passaggi e corridoi; era in sostanza un “quadrato magico” composto da 7 file di 7 stanze, ciascuna dotata di una porta/arco, disegnato con varie immagini e riempito con simboli e abitanti virtuali.

Il numero 7, numero magico secondo la tradizione occidentale, corrisponde ai 7 pianeti principali che influenzano gli esseri umani sulla terra: da sinistra a destra, la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno.

Giulio Camillo divisò un sistema mistico in 49 stanze, costruite orizzontalmente e verticalmente, seguendo un complesso gioco di corrispondenze esoteriche e astrologiche: il suo lavoro fu considerato un puro tesoro, studiato da Re e uomini di Corte in tutta Europa.

Ricci venne alla luce poche decadi dopo la morte di Giulio Camillo e aggiunse un vasto obiettivo religioso e missionario a quello del sistema filosofico di Giulio Camillo: l’evangelizzazione della Cina. Per “diffondere il Verbo [1]” Matteo Ricci doveva includere il Vangelo nel Palazzo della Memoria.
Una possibile traccia di come la scelta di Matteo Ricci fosse caduta proprio sul sistema di Giulio Camillo basato sulle 49 stanze, ci viene dalle raccomandazioni agli studenti formulate dai Padri della Chiesa: “quando memorizzate, pregate”; imprescindibile è la rimembranza delle parole della preghiera del “Padre Nostro”, composta personalmente da Gesù Cristo, come dice il Vangelo.
Abbiamo scoperto che questa preghiera contiene esattamente 49 parole latine, alcune delle quali non sono, a rigore, necessarie e ridondanti per la sintassi del testo, come alcune preposizioni (“sicut et nos dimittimus”…etc).

Ciò significa che il misterioso sistema di memorizzazione per i giovani cattolici era basato su un palazzo di 49 stanze, ciascuna collegata alle altre dalle parole del “Padre Nostro”, come i grani di un rosario.

Abbiamo riempito perciò il palazzo di Giulio Camillo con le parole di quella preghiera, inziando dalla base (il piano più basso) e procedendo verticalmente, colonna per colonna, da sinistra a destra.
Poi abbiamo tradotto in caratteri cinesi le lettere latine e formato “famiglie” di caratteri collegati per significato o per ripetizioni di alcuni componenti.